Odio di palma, quando la motosega diventa un accendino

Il 15 febbraio 2017, Matteo Salvini pubblicava sulla sua pagina di Facebook l’ennesima polemica dai toni aspri. Nulla di nuovo, vi direte. D’altronde, le argomentazioni vanno poco di moda tra chi vuole fare proseliti tra coloro che di argomentare non ne vogliono sapere.

L’oggetto dell’iracondo soldato dell’esercito di Giussano questa volta sono degli inermi vegetali, delle povere palme che il Comune di Milano, a seguito di un bando pubblico vinto dall’azienda americana Starbucks, ha fatto piantare di fronte al simbolo della capitale meneghina.

Esattamente, degli alberi, per altro provenienti da vivai italiani, per le quali l’amministrazione pubblica non ha sborsato un solo euro.

Parrebbe dunque un dibattito puramente estetico, ma giammai sottovalutare il nostro eroe. Dopotutto, se esistesse un premio alla Strumentalizzazione Creativa, Messieur Salvinì lo vincerebbe sicuramente, salvo poi lamentarsi del fatto che il trofeo è rotondo, dunque troppo simile alle noci di cocco, le quali notoriamente crescono nel sud del mondo. “E’ o non è questo un oltraggio?

Dunque, nella sua missione civilizzatrice, Matteo Salvini decide che le palme sono troppo in linea con “l’africanizzazione” della città di Milano, e per questo meritano di essere abbattute. Digita infatti il 15 e 16 febbraio 2017:

Il progetto, v’è da dirlo, non ha riscosso molto successo nemmeno tra la popolazione, generando un casus belli dai toni inverosimilmente drammatici. Dopotutto, il soprannome di “Mi-lagno” non viene per caso. Qualcuno avrà probabilmente pensato che sarebbe stato un ottimo spazio per dei parcheggi. Tuttavia, lasciando per un attimo da parte le polemiche di botanica, estetica ed urbanistica, facciamo un piccolo salto nel tempo.

È la notte tra il 18 ed il 19 febbraio 2017, quando un gruppo di ignoti si reca in prossimità delle piante della discordia, e vi appicca fuoco. La fiamma viene spenta, le palme sopravvivono. Peccato penseranno alcuni. Peccato che il dissenso della società civile venga sempre più spesso espresso usando qualcosa di molto simile alle suddette noci di cocco, più che il cervello, penseranno altri.

A cosa, o a chi, è imputabile questa inversione di ruoli tra gli organi del corpo e della mente umani, la quale sembra sempre più diffondersi? Sicuramente i fattori in gioco sono molti, e altrettanto certamente le teste di noci di cocco sono sempre esistite. Il palco della politica mondiale ultimamente non è stato calcato da uomini con parole ispirate da grandi ideali, quanto più da personaggi che, con grugniti tribali intenti a risvegliare i sentimenti più atavici della menta umana: la paura, il senso del branco, l’egoismo.

Fin quando, speriamo a lungo, la libertà d’espressione sarà tutelata dalla nostra Costituzione, ognuno sarà libero di dire ciò che vuole, anche i Salvini di tutto il mondo. Eppure, non è così semplice, non può esserlo. Come scrisse Karl Popper nel 1945, la tolleranza vive schiacciata in un apparentemente irrisolvibile paradosso. Infatti, “se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi.”

Ma come segnare il confine? Giuridicamente è difficile, e sicuramente non è compito di giornalisti o militanti. Però politicamente si può, e si deve saper cogliere ed evidenziare le differenze, le sfumature che dipingono un quadro completamente diverso. A fuoco spento, questa vicenda delle palme e delle motoseghe, riporta con la mente ad un fatto di cronaca di qualche anno fa.

Foto Ansa

Era il 2013, ed il poeta e intellettuale Erri De Luca in un’intervista riguardante le proteste contro la TAV esprimeva il suo supporto verso gli atti sabotatori. Tutti ricordiamo cosa è successo dopo. A seguito di un esposto della società Ltf (Lyon Turin Ferroviaire), De Luca è stato indagato per istigazione alla violenza, processo dal quale viene assolto in quanto non sussiste reato. Questo è il discorso che egli pronunciò in sede processuale, poco prima di conoscere l’esito della sentenza.

Ciò che è costituzionale credo che si decida e si difenda in posti pubblici come questo, come anche in commissariato, come in un’aula scolastica, in una prigione, in un ospedale, su un posto di lavoro, alle frontiere attraversate dai richiedenti asilo. Ciò che è costituzionale si misura al pianoterra della società.
Sono incriminato per aver usato il verbo sabotare. Lo considero nobile e democratico. Nobile perché pronunciato e praticato da figure come Gandhi e Mandela, con enormi risultati politici. Democratico perché appartiene fin dall’origine al movimento operaio e alle sue lotte. Per esempio uno sciopero sabota la produzione. Difendo l’uso legittimo del verbo sabotare nel suo significato più efficace e ampio. Sono disposto a subire una condanna penale per il suo impiego, ma non a farmi censurare o ridurre la lingua italiana.

E i Salvini, i Trump, i Wilders del mondo, dunque? Dove li collochiamo in questo elogio alla libertà di espressione? Il loro tentativo di dividere il mondo in buoni e cattivi, di colorarlo di bianco e nero, è frutto di un’ideale la cui espressione va tutelata, o è forse un’eterna campagna elettorale diretta agli strati più culturalmente deboli della società? Se il processo a Erri de Luca è stato un’intimidazione, un banco di prova per attività censorie, come lo definì lo stesso professore, un processo agli intolleranti rappresenterebbe un avamposto nella lotta contro i discorsi di odio e razzismo che come una macchia nera stanno ricoprendo quest’epoca.

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