Locus Festival | Un concerto lungo un’estate

È difficile essere obiettivo e distaccato nello scrivere il report di una manifestazione a cui si è partecipato ospite e circondato da amici, persone che non hanno fatto altro che rendere il soggiorno in quella meravigliosa terra che è la Puglia incredibilmente accogliente e bello nell’accezione più semplice e pura di questo termine. In realtà però trovo che questo sia stato anche lo spirito perfetto per partecipare a un festival che inizia alla fine di Giugno e che si protrae per tutta l’estate, fino a ferragosto, e che fa dell’unione fra l’internazionalità della sua proposta musicale e l’autoctonia delle sue location, sponsor e via dicendo, il suo vero punto di forza e motivo di esistere. Ho partecipato a quattro serate del festival, attraversando i tre luoghi diversi in cui è stato organizzato; credo quindi di essermi fatto un’idea il più possibile completa sull’edizione di quest’anno e più in generale sull’evento in sé: proverò quindi a ricostruire questa lunga esperienza pugliese dividendola per location. Iniziamo.

Chapter 1: Benjamin Clementin @Masseria Mavù 

Nell’introduzione ho parlato del ruolo fondamentale svolto dal territorio pugliese nell’organizzazione del festival, e questa prima serata me ne dà subito conferma. La Masseria Mavù è il luogo dedicato ai concerti a pagamento, ed è una di quelle location magiche di cui solo noi italiani possiamo approfittare. La masseria si trova appena fuori Locorotondo, il paese che ospita le serate gratuite nella sua accogliente piazza e da cui il festival prende nome (ci arriveremo dopo).

Il Mavù è una location talmente suggestiva che non richiede quasi nessuno sforzo ulteriore nel creare la giusta atmosfera: una paio di luci strategiche, qualche balla di fieno e tavolini bassi ed il gioco è fatto. Come tutti i concerti che ho visto anche questo vede una grande partecipazione di pubblico di tutte le età. Il concerto inizia con i canonici 30//40 minuti di ritardo, con l’apertura affidata al cantautore inglese Isaac Gracie che accompagnato dalla sola chitarra elettrica riesce a reggere il palco per buoni trenta minuti, facendoci ascoltare le note delicate dei suoi brani, che si inseriscono molto bene nella più o meno recente tradizione di cantautorato inglese. Una voce personale, ma che ricorda da vicino artisti come Keaton Henson, o colleghi più mainstream come James Bay.

Ed ecco che è arrivato il momento che tutti stanno aspettando, l’ingresso in scena di uno dei più interessanti artisti degli ultimi anni, fresco di pubblicazione del suo primo album ufficiale e figura affascinante ed enigmatica, Benjamin Clementine. Se anche da parte sua mi aspettavo uno show minimale, magari solo piano e voce come molte delle sue apparizioni reperibili in rete mi sono subito, e felicemente, ricreduto. Benjamin è infatti accompagnato da un batterista, un bassista, un coro di cinque donne ed un tastierista che si occupa delle parti più da synth, lasciando a Clementine l’esclusiva sull’elegantissimo pianoforte a coda. Il concerto è una vera sorpresa, gli arrangiamenti ed i suoni mi fanno venire più volte in mente le cose migliori dei Queen, quel gusto operistico e barocco, quasi decadente, che si sposa benissimo con le canzoni ed i testi del nostro e soprattutto con la sua voce. E qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte: la voce di Clementine è semplicemente impressionante, tanto sussurrata e quasi impercepibile nelle battute scambiate con il pubblico (anche se mano mano prenderà sempre più confidenza) quanto potente, versatile ed emozionante durante i brani. Veramente incredibile. Il concerto insomma si è rivelato decisamente sopra le mie aspettative, anche grazie ai suoni perfetti provenienti dal grande e curato palco. Alcuni accorgimenti logistici sono stati l’unica nota stonata della serata, in particolare la decisione di piazzare le sedie davanti al palco, costringendo quindi la maggior parte delle persone a seguire il live da una posizione parecchio defilata, o la incomprensibile decisione di piazzare i bagni chimici subito dopo l’ultima fila di sedie, cosa che non è stata un bello spettacolo uditivo né olfattivo. In ultimo la scelta di collocare gli stand dell’official parter Tormaresca (ottima azienda vinicola della zona) proprio al lato del palco vicino alle persone, creando così un costante brusio che è addirittura arrivato a disturbare lo stesso Benjamin Clementine, che ha zittito in un paio di occasioni i chiacchieroni. Tutto sommato però queste cose, nonostante credo fossero più che facilmente evitabili, non hanno inficiato sulla riuscita della serata e del concerto, che è stato una vera delizia.

Chapter 2: Dayme Arocena e Robert Glasper @Locorotondo

Per questi due concerti, come anticipato, ci spostiamo nella piazza principale di Locorotondo, delizioso paese della Valle D’Itria. Il bello dei concerti organizzati qui (la maggior parte) è che sono totalmente gratuiti. Torniamo quindi al discorso dell’integrazione quasi perfetta fra territorio verace e musica internazionale, con i vecchietti che scendono dalle case con le loro sedie di legno e si posizionano lì dal tardo pomeriggio pronti a godersi una serata di musica. Un’occasione di condivisione, di ascoltare musica di altissimo livello a titolo gratuito, in una situazione familiare ed accessibile a tutti. L’aria che si respira per le vie è quella genuina e di gioia pura delle feste di paese, con le famiglie vestite di tutto punto a fare la passeggiata in giro per il centro prima di raccogliersi tutti in piazza. Il piccolo particolare è che ad animare la festa non sarà una cover band di Ligabue, ma alcuni fra i più grandi artisti nazionali e internazionali.

Il primo dei due concerti a cui ho partecipato è quello di Dayme Arocena, giovanissima nuova stella internazionale della musica Cubana. Parlando della sua musica tutti citano quasi esclusivamente i Buena Vista Social Club, sicuramente a ragione, ma in realtà la musica di questa simpaticissima e dotata cantante, musicista e compositrice, è molto più eterogenea e complessa. Una sintesi inedita e riuscitissima delle declinazioni più moderne di jazz, soul, funk e tradizione cubana con a tratti una profondità che trascende tutti i generi citati. A livello anagrafico e d’intenti mi viene facile accostarla alla bravissima Esperanza Spalding, che ovviamente ha però il suo focus tutto improntato sul jazz. Il live di Arocena è incredibilmente coinvolgente, i musicisti che ha con sé sono di primordine e lei è una forza della natura, vestita completamente di bianco e a piedi nudi è elegantissima, e cerca da subito, riuscendoci prima di quanto ci si potesse aspettare, a coinvolgere il pubblico accorso, che non tarda a ballare insieme a lei. L’ondata di buon’umore che sprigiona è tale che lo show finisce troppo presto per tutti, tanto che il pubblico che è andato scaldandosi sempre di più canzone dopo canzone non si dà pace e non si bene come un signore si ritrova all’improvviso sul palco con lei a condividere qualche passo di danza. Dopo il concerto Dayme ha anche presenziato il banco del merchandising, regalando sorrisi e abbracci a chiunque si avvicinasse. Veramente un raggio di sole ed una ventata di allegria e calore.
Subito dopo il concerto il Locus ha organizzato un after-party (sempre gratuito) nella chiesa sconsacrata di Sant’Anna, poco distante dalla piazza. Il luogo è suggestivo, antico e moderno allo stesso tempo (costante del Locus d’altronde) la gente tantissima e vogliosa di continuare a far festa. Il dj set però è veramente pessimo e non aiuta, non si crea mai un vero e proprio dance floor, le persone si limitano quindi a stare in pista a bere e chiacchierare, godendosi la location decisamente speciale.

Il giorno dopo è il turno del concerto su cui nutrivo più aspettative di tutti, quello di Robert Glasper. In apertura c’è l’Italian Soul Summit, ovvero Davide Shorty, Ainè e Serena Brancale, le tre punte di diamante della scena nu-soul italiana che piano piano sta emergendo sempre di più (prima di questo concerto avevano aperto anche quello di Solange a Bari). Uno show impeccabile dal punto di vista della performance, con brani “quadrati”, godibili e molto ben suonati e cantati. Un suono che è coraggioso provare a portare in Italia, e c’è sicuramente da ringraziarli per questo, l’unico appunto potrebbe essere quello di provare a cercare un po’ più di personalità ed originalità, visto il citazionismo che a tratti è palese, ma siamo decisamente sulla buona strada.

L’inizio del concerto di Glasper slitta di una buona mezzora per problemi tecnici, problemi che non saranno risolti veramente fino a circa metà performance. Prima di continuare, c’è da aprire una parentesi: Robert Glasper è un affezionato del Locus, è addirittura la terza volta che viene a suonarci, di conseguenza pubblico ed organizzazione lo trattano con un “occhio di riguardo”. Forse sarà stato per questa sicurezza derivatagli da un’ambiente che conosce molto bene e che sa che lo supporta parecchio, forse sarà stato per i continui e fastidiosi problemi tecnici che sembrano colpire a rotazione quasi tutti gli strumenti, saranno state troppo alte le mie aspettative oppure sarà semplicemente stata una serata no, però il suo concerto mi ha deluso moltissimo. Il gruppo non ha mai spiccato il volo, non è mai riuscito a creare quell’alchimia magica ed inspiegabile che ci si deve aspettare da questo tipo di formazioni, da questo tipo di musica e soprattutto da un nome come quello di Robert Glasper. Anzi, spesso la sensazione era quasi quella di svogliatezza e di feeling da sala prove, quando si è alla fine e si è stanchi. La piazza gremita e l’aria di festa più totale hanno sicuramente contribuito a tenere alto l’interesse e la gioia delle persone, ma dal punto di vista della performance c’è stata a mio modo di vedere (e anche di tante altre persone, ben più esperte di me in materia) una totale disillusione delle aspettative, che mi hanno lasciato non poco con l’amaro in bocca. Fortunatamente ho preso la decisione, un paio di settimane dopo, di imbarcarmi a Ferragosto in un viaggio BlaBlaCar/ferrovie pugliesi, per dare il giusto finale alla mia esperienza al Locus Festival.

Final Chapter: BadBadNotGood @LidoLullabay

Partiamo col dire che questo evento ha viaggiato su due binari paralleli che sembravano all’improvviso destinati a scontrarsi. La serata, anzi il “party” come definito dagli stessi organizzatori, è stata la festa di chiusura di quest’edizione, ed in quanto tale è stata pubblicizzata come concerto in spiaggia gratuito, cosa che ovviamente ha fatto impazzire di gioia le persone, visto anche gli ospiti del tutto speciali. Il problema è che ad uno sguardo più attento si è notato che l’ingresso non era gratuito ma si entrava solo con la maglia del festival. Qui sono cominciati i borbottii online, non per il prezzo della maglietta, perché stiamo parlando di dieci euro per vedere un gruppo che in situazioni “normali” non ne chiederebbe, giustamente, meno di una trentina. I malumori sono venuti a galla perché è cominciato ad emergere che il “dress code” era un modo di limitare gli accessi al Lido Lullabay, che effettivamente ha uno spazio molto ridotto. Insomma a livello di pubblicità/comunicazione secondo me si è toppato alla grande, ma senza dubbio tutto il resto, il lavoro e l’idea alla base, è stato impeccabile.

Il lido è uno dei più conosciuti ed attrezzati della zona, lo spazio è contenuto e curatissimo, l’atmosfera che si respirava è stata veramente speciale, considerando anche che in molti, compreso me ed i miei amici, sono arrivati direttamente dalla spiaggia, salati e felici. Il concerto è iniziato in perfetto orario alle 20.30, su un palco dominato dalle luminarie tipiche delle feste di paese, con il Locus che ci conferma ancora una volta la sua cura dei dettagli, di quanto poco ci voglia a rendere bellissimo qualcosa usando ciò che la nostra terra ha da offrire. Come ho già detto l’atmosfera è fantastica, i BBNG sono una schiacciasassi che riesce a coinvolgere fin dalla prima canzone il pubblico, facendolo ballare, urlare, battere le mani, abbassare fino a toccare terra e saltare in aria provando a toccare il cielo (provate a trovarmi un altro gruppo Jazz che ci riesca). Tecnicamente ineccepibili, la magia, la coesione e soprattutto la voglia di spaccare tutto che mi era mancata a Robert Glasper eccola qui tutta quanta davanti a me, sprigionarsi da questi ventenni canadesi che sembrano quasi più felici di noi. Il concerto dopo poco più di un’ora purtroppo finisce, e ci si riversa tutti in spiaggia a salutare insieme alle ultime stelle cadenti anche il Locus Festival che quest’anno, come dichiarato dagli organizzatori, ha battuto qualunque record personale.

Tirando le somme, fra le righe che ho scritto saltano all’occhio diverse critiche, che però non riescono a scalfire l’esperienza nella sua totale interezza. Questo perché parlando di Locus Festival non possiamo parlare solo di un concerto o di concerti, ma di una vera e propria esperienza, un viaggio. Per questo nell’introduzione ho detto come il modo migliore di rapportarsi alla manifestazione fosse quello della compagnia degli amici, di vivere il territorio meraviglioso della Valle D’Itria e di conseguenza vivere il Locus come parte integrante e viva di questa terra. D’altronde credo sia proprio ciò che gli organizzatori ci hanno voluto comunicare durante tutte le date, tramite accorgimenti come la scelta di parters prevalentemente locali e di scenografie e location. La definitiva prova di questa attitudine? Il logo scelto: il tetto di un trullo visto dall’interno. Quale migliore metafora di questa?

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