La partecipazione a Day of the Dead, magistrale progetto di cover dei Grateful Dead curata dai The National, con il pezzo Stella Blue, aveva fatto ben sperare per un ritorno in pompa magna degli eroi indie Local Natives. Dopo il promettente esordio con Gorilla Manor e il secondo Hummingbird, a distanza di tre anni la band californiana presenta il terzo lavoro in studio, Sunlit Youth.
Il suono riconoscibile, maturato nelle precedenti esperienze in sala di registrazione, a cavallo tra echi indie folk alla Fleet Foxes e suggestioni alla Grizzly Bear, in questo episodio vira verso la fatidica svolta elettronica, già percepibile, oltre che dai singoli estratti, anche dal vivo, con una formazione che schiera prepotentemente i synth in pole position. Un percorso già intrapreso in modo più o meno convincente da altre band: se da un lato, per gente come i Tame Impala questo cambio di direzione ha garantito l’ascesa nell’olimpo dell’indie rock, per i nostri la strada sembra ancora piuttosto in salita.
Una continua rincorsa per un disco che, pezzo dopo pezzo, fatica a prendere quota, ma anche a prendere una direzione decisa, in bilico, per tutte le 12 tracce, tra la volontà di un cambiamento e l’eredità dei due sorprendenti lavori che lo precedono.
Se pezzi come i singoloni Past Lives e Fountain of Youth, o la struggente chitarra acustica di Ellie Alice, ci avevano ricordato i vecchi lavori, con quegli elementi caratteristici, dai ritmi tribali afro-pop, alla sovrapposizione di voci che creano un substrato sonoro, l’aggiunta, in alcuni casi l’abbondanza, di suoni digitali si sente su brani come Villainy, Masters, in cui anche le voci sono effettate, o Jellyfish, dove é proprio la componente elettronica a predominare. Non mancano picchi, come la chiusura dolce con Everything All At Once e Sea of Years, Dark Days dove le voci si fanno addirittura tre, con l’ospite Nina Persson, particolare e riconoscibile leader dei Cardigans, o Coins, momento più alto del disco, con un cantato che a tratti ricorda prepotentemente un Jeff Buckley dall’animo più leggero. In generale però, le alte aspettative non vengono del tutto attese, con un disco che si colloca in un momento cruciale per la band: sarà abbastanza per lanciarli nel firmamento insieme alle altre stelle? Abbiamo dei dubbi.
La sensazione finale dopo qualche ascolto lascia come sospesi. Sulla carta un buon disco, orecchiabile, ballabile e non privo di soluzioni interessanti. Ma dopo le prime due eccellenti prove ci aspettavamo sicuramente qualcosa che non facesse proprio gridare al miracolo, ma quantomeno alzasse l’asticella di qualche tacca. Un mezzo passo falso che, ci auguriamo, faccia decidere ai ragazzi di Los Angeles di tornare a sonorità a loro più congeniali