Lo scorso 11 febbraio usciva per l’etichetta newyorkese Bastard Jazz il primo disco di LNDFK, Kuni, portato in Italia da La Tempesta Dischi, e interamente co-prodotto assiema a Dario Bass. L’album è stato anticipato nello scorso anno da tre uscite, “Don’t know I’m Dead or Not”, “How Do We Know We’re Alive” e “Ku”, un trittico che è già esemplare dello stile intimo e della ricerca di Linda. L’artista prende a piene mani come materiale da costruzione elementi che singolarmente potrebbero sembrare disparati, si hanno immagini e suoni provenienti dal lontano oriente giapponese come anche dal rap statunitense e dal cinema e dalla poesia e dall’arte, ma che vengono sapientemente intessuti in un tappeto sonoro variegato ed equilibrato al tempo stesso, fatto di ritmi cadenzati melodie nu jazz e scat vocali, fino a creare un immaginario nuovo, proprio e personale in cui gli elementi originari mantenendo il proprio valore riescono ad esprimere qualcosa in più, e qui sta il bello, penso, di quest’opera. Il risultato è un disco unitario ma allo stesso tempo duplice, in cui l’ascoltatore si trova fra due fuochi nella straniante sensazione di una calma apparente sotto la quale si agitano oscure correnti, o, volendo, di un’irrequietezza oltre la quale sta la tanto agognata pace.
Segue intervista in cui ho avuto il piacere di farmi spiegare da LNDFK la genesi e la storia nascosta di questo bellissimo album.
Come nasce il disco? Qual è stato il percorso per arrivare a KUNI?
Kuni nasce dopo un lungo periodo di gestazione che è iniziato nel 2019, ed è stato un lavoro importante per me anche sul piano della crescita personale. In quel periodo avevo già pubblicato come LNDFK, ma ciò che avevo prodotto non mi soddisfaceva: mi ricordava sempre qualcosa, qualcos’altro, qualche altra canzone, come se mancasse di una propria personalità. Per cui ho deciso di prendermi una pausa dalla produzione e mi sono messa a fare ricerca nuovamente per trovare un suono che avesse una propria autenticità. Così ho cambiato il mio approccio creativo alla radice e, se prima cercavo l’ispirazione nella musica, con questo disco mi sono aperta e lasciata ispirare dall’arte in generale: dal cinema al teatro, dal fumetto e dalla pittura alla poesia ho trovato gli elementi che poi sono andati a comporre Kuni. Ad esempio, le prime due tracce fanno riferimento al regista giapponese Takeshi Kitano, mentre l’ultima, che è un po’ un sigillo di chiusura per me, è una citazione della mia poesia preferita, di Edoardo Sanguineti, “se mi stacco da te, mi strappo tutto”.
Che cosa vuoi raccontare con quest’opera?
Trovo sia più interessante capire che cosa esprima Kuni indipendentemente da cosa volessi raccontare io. Mi spiego: il disco è molto connesso al visivo, nasce da immagini ed io ho provato a restituire queste immagini e le emozioni che facevano suscitare in me trasformandole in suoni, in musica. Il concetto che sta alla base del disco è nato a lavori in corso quando, assieme a Dario Bass (con cui ho prodotto l’album), ho visto il film Hana-bi di Kitano: da quel momento è stato tutto chiaro, è stato come se ciò che avevamo già prodotto si fosse saldato insieme legato ad un senso che il film aveva impresso, e che poi abbiamo seguito fino alla chiusura. Hana-bi significa fiori di fuoco ed è una riflessione sulla dicotomia vita e morte, e su quanto queste siano permeabili l’una all’altra. Così è arrivata l’illuminazione e ho capito che su cosa Kuni volesse riflettere: sugli eterni opposti eppure complementari e compresenti Amore/Morte, violenza e delicatezza.
Ho affrontato tematiche molto intime per me, ma che credo siano importanti anche per molte altre persone, e di cui purtroppo non si parla spesso. Ad esempio, “Don’t know I’m Dead or Not” e “How Do We Know We’re Alive” sono connesse al fenomeno della depersonalizzazione, cioè un fenomeno dissociativo per cui si sente un’alterazione di sé, che spesso è legato a situazioni traumatiche, per cui viene a mancare a se stessi la propria presenza: io mi chiedo come si sta quando succede, cosa vuol dire? E come fare a riconquistare se stessi? “Ku” invece racconta una storia di violenza e sofferenza e della successiva vendetta, una vendetta che lascia i segni di una lama: per raccontare questa storia ho creato un alter-ego, ispirato ai personaggi di Miho di Sin City e di Yan della serie Love Death and Robot, che parlasse al posto mio. In un periodo in spesso avevo degli incubi, una notte sognavo di trovarmi in una situazione pericolosa da cui non avevo via d’uscita quando oniricamente mi è apparsa affianco una katana grazie alla quale sono fuggita, così appena sveglia ho scritto la canzone cercando di restituire il più possibile ciò che avevo provato nel sonno. Direi che questo è un buon esempio per spiegare ciò che ho fatto con questo disco, ossia dare forma sonora ad immagini e sensazioni altrimenti inesprimibili.