Lisbona

La scrivania è nel suo primordiale stato caotico e i libri si ammonticchiano uno sopra l’altro in un disordine in perfetta asimmetria. Il computer è acceso davanti a me con la tesi di laurea che procede a rilento. Mi distraggo un poco, perché mi chiamano al telefono; rimettermi a scrivere richiede uno sforzo titanico e allora cerco di farmi coraggio con l’aiuto di una pastiglia Leone. «Dal 1857» riporta la scritta sulla scatolina gialla. Un marchio che è più vecchio di me e che sopravviverà più a lungo di me. È un pensiero ricorrente, lo adatto alle case, alle macchine, agli alberi, con una certa naturalità. Il senso di angoscia e di tristezza pensando a quanto è brutto morire è comunque minore a quello che provo nel momento in cui secca un albero, o una casa crolla, o una ditta di confetti di zucchero scompare nel nulla.

Il pacchetto delle caramelle Leone riporta un design antico e formidabile: forse all’inizio rispondeva ai canoni della moda del momento e poi è diventato improvvisamente vintage, prima ancora di diventare vecchio. La scritta Torino, su un lato della confezione, mi riempie per un secondo d’orgoglio. La mia città su un pacchetto di caramelle vendute da più di un secolo e mezzo: c’è qualcosa di banale ma quasi fisicamente piacevole in tutto ciò, di una naturalezza spossante. Il mio pensiero non passa attraverso discorsi strettamente logici, ma vola libero senza troppi problemi e, passando attraverso l’economia che funziona o meno, arriva senza intoppi al Portogallo, a Lisbona, alla spiaggia.

Non so se il vento volesse portarci via o mettere alla prova la mia salute già piuttosto traballante a causa del raffreddore che mi aveva colpita con una precisione matematica nell’esatto momento in cui eravamo partiti per il nostro viaggetto; ma di certo non scherzava quel giorno in riva all’Oceano. Un dicembre caldo ci accoglieva di fronte alla liquida superficie verde acqua, ma per mangiare i due panini recuperati nella panetteria di Sintra ci rannicchiammo in un cantuccio riparato dal vento: una piccola insenatura nella parete rocciosa che scendeva a strapiombo sul mare sembrava creata proprio per noi, per il nostro pic-nic improvvisato. Mangiammo in piedi, spiando un fotografo che voleva immortalare le orme del mare sulla sabbia bagnata e un cane eccitato che lottava contro le onde feroci.

Il paesaggio oceanico l’avevo già osservato un’altra volta e, sebbene fossi molto distante, mi ripropose la stessa sensazione. Le onde grandi che si infrangevano lontane dalla riva, si schiantavano con un fragore tale che era difficile parlarsi; il vento collaborava per aumentare il frastuono e ululava senza posa. L’aria fresca, impetuosa, raggiungeva ogni centimetro della mia pelle scoperta. Mi dava fastidio, se mi preoccupavo che mi spettinasse, ma nel momento in cui cedevo, mi arrendevo, il suo passare nei miei capelli, sferzare vorace sulla mia pelle, mi confortava, mi rilassava e immediatamente capivo le tue parole: «Certo che farai anche una vita di merda, tu, gabbiano, che non sei altro che uno stupido pennuto; ma sei ben ricompensato se hai tutti i giorni una vista così. Mi farei anche io trasportare dalla volontà del vento se potessi volare ogni giorno su un mare tanto bello».

Le tue parole prive di ogni retorica, che nascondevano forse al loro interno una certa dose di emozione, mi arrivarono inaspettate come ogni volta che ti abbandoni a un commento di questo tipo. Sono abituata a filosofeggiare in solitaria, magari mettendolo per iscritto e quando provo ad esprimere certe cose a parole, mi sento improvvisamente incapace e un po’ stupida. Tu invece sei spontaneo come un bambino, a volte, e queste osservazioni ti scappano fuori senza freni, come da un eccesso di entusiasmo. Avevi gli occhi coperti dagli occhiali da sole, ma mi sarebbe piaciuto scoprire il tuo sguardo in quel momento.

Prendemmo un caffè quasi eterno nel ristorantino rustico sulla spiaggia, commentando insieme quando ci ricordava il ristorante di Witsand, in Sud Africa. Ero un po’ triste, perché il viaggio stava per finire, perché eri immerso nei tuoi pensieri e non mi davi tutte le milioni di attenzioni che pretendo, allora mi sono lasciata assorbire dal momento, dalla natura, dal silenzio artificiale della nostra auto in affitto. Guardavo la vegetazione oceanica che piano piano scompariva e i piccoli arbustelli sulle dune di sabbia e roccia che lasciavano posto ai canneti e ai primi campi. «Chissà cosa coltivano in questi orti» mi lasciai sfuggire un po’ sovrappensiero. «Ma non so. Povertà?».

Il tuo nuovo cinismo che non ti si addice lo presi per umorismo e mi lasciai andare in una risata spontanea. Come la porti quella amarezza, quel disincanto, come un vestito che non ti vuole proprio entrare e non importa quanto ti sforzi e lo tiri, quello non si abbottona. Sei un sognatore, un’idealista, un illuso che ama farsi cullare dalle belle illusioni. Ti piace l’oceano e tutta la sua immensità, perché in fin dei conti quell’infinita distesa d’acqua, quel momento di sublime ti fanno sentire quello che sei davvero, perché non ti spaventano, ma ti confortano, perché credi davvero che l’estetismo, la bellezza e la vastità senza confini, siano costanti che si annidano in te, fino nel profondo della tua essenza, fanno parte di te e formano una parte di te.

Sei il gabbiano della spiaggia che ti commuove. Sei la spuma del mare che si stacca dalle onde che raggiungono la spiaggia e corrono a filo sulla sabbia bagnata fino a disfarsi nell’aria. Sei il complesso procedimento mentale che proviamo leggendo nei libri di scuola la differenza tra il concetto di bello e quello di sublime, nel romanticismo: la rosa è bella, il cielo stellato è sublime, perché reca nella sua essenza il concetto di infinito.

Sei la distanza che intercorre fra le rive del mare della Liguria quando il mare è liscio e le onde lambiscono le pietruzze nel silenzio dell’alba con un fruscio impercettibile e questi flutti prorompenti e azzurri, come se volessero lottare con il cielo stellato, per far vedere che l’infinita potenza vale quanto l’immensa distesa dell’universo. Ti amo nello stesso modo in cui l’oceano sembra voler abbattere le pareti di roccia che lo contengono in questi giorni di dicembre. Senza freni, senza risposte, assediandoti. Eternamente grata perché mi contieni in te, perché esisti perché il mio amore possa fermarsi e abbandonarsi in te, con tutta la violenza necessaria.

Volevo dirtelo insieme al fatto che il cinismo non ti ci si addice per nulla, che mi piace la luce che passa nei tuoi occhi quando pensi a quanti uomini prima di te hanno calpestato i gradini dei fori romani; ma non te lo dissi, perché certe cose sono più belle da pensare, magari potrei scrivertele, un giorno l’altro.

E per ritornare all’economia, sono giunta a una risposta. Secondo me il porto più grande d’Europa non è Lisbona, ma Rotterdam, per una questione di pudore. I paesi nordici non lo posseggono, ce l’abbiamo solo noi, popoli mediterranei: gli spagnoli, gli italiani, i greci e i portoghesi hanno un destino comune. Come io non riesco a descriverti faccia a faccia la fenomenologia del mio amore incontrollato, questi paesi non riescono ad accettare lo sbarco dei carichi immensi senza rifletterci un po’ su. E’ un pudore che si intravede dagli sguardi dietro gli scuri delle finestre, dai paesi di pescatori che amano dormire dopo pranzo, perché c’è ancora molto tempo prima che cali il sole e perché d’inverno il terreno non lo si semina, ma si attende la primavera perché dia i primi fiori.

In Olanda, invece, non si fa che coltivare tulipani senza posa tutto l’anno e ci si gode un po’ meno l’intimità del proprio letto dopo mangiato. E l’immagine delle città cambia veloce, la skyline si modifica e si supera ogni anno, l’economia fiorisce e il reddito cresce esponenzialmente. Ma le vacanze, gli olandesi, continuano a volerle passare sulle coste italiane e vanno a fare surf sulle rive impetuose del Portogallo. E sono i loro quindici giorni più belli dell’anno, quelli in cui imparano a fare la siesta vicino al loro amore.

Silvia Gamba

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