La rabbia è diventata disillusione. Il pessimismo è retrocesso in edulcorata ma in fondo amara incertezza. E la lotta di una generazione, quel “noi contro tutti” si è trasformata in una battaglia a due, un “io e te” contro quello stesso mondo che comunque resta «antagonista». Ma la determinazione, quella dei Voina, di fare ciò che vogliono senza essere soffocati da una visione precostruita, men che meno musicale, è rimasta la stessa. «Non volevamo copiare noi stessi per accontentare il pubblico, ma continuare a divertirci anche rischiando di perdere chi ci seguiva per quel che eravamo». Ossia dei punk-rocker ribelli che cantavano un perenne inno allo schifo e urlavano sui palchi di non voler diventare grandi.
Ma loro grandi alla fine lo sono diventati, anzi Ipergigante, come il nome del loro terzo disco, uscito per V4v-Records. Quel massimo di luminosità che una stella raggiunge prima di diventare un buco nero. E lo intonano in faccia alla paura di aver rischiato troppo per non perdere se stessi. Persi però a loro volta in un vortice di sincerità e sonorità trasversali. Dal punk all’elettronica, con sprazzi entusiasti di trap, hip hop ed elettropop. Che riempiono lo spazio lasciato dalle chitarre grintose e dal pogo alcolico. Quel che fu di un passato non rinnegato ma reso più «elegante, perché quando hai 30 anni scema la forza propulsiva e si tramuta in ragionamenti oscuri».
Ivo Bucci e Domenico Candeloro, il cuore irriducibile dei Voina che ha resistito davanti a lavori fissi e ad ambizioni personali – come per gli altri componenti della band – oggi sono cresciuti. E non lo nascondono. Professionalmente, Ivo insegna e Domenico ha aperto lo studio discografico il Biscottificio Music Studio (Lanciano), ma soprattutto musicalmente, preferendo la contaminazione alla rincorsa di una coerenza che, a lungo andare, rischia di essere patetica. E rinnovandosi. Consapevoli che la grande svolta dell’indie ha sfondato i muri della nicchia a una platea eterogenea. Scegliendo di «diventare, per quanto possibile quel che volevamo essere, liberi».
Ipergigante libero lo è. Soprattutto dal ricordo di ciò che erano. Liberi, aggiungendo su Spotify accanto a Fugazi, RATM e Nirvana anche Post Malone, The XX, Lil Peep, “Tyler, The creator” e XXXTentacion «perché si sa che il rock non è morto ma sepolto». Liberi, in quel di Lanciano in Abruzzo dove si continuano a sfornare «cafoni, tanto che con il Management stiamo pensando di scriverlo sulle magliette per i tour» e dove, e Ivo lo sa bene, ancora si può restare senza internet al cellulare, non trovare reti wi-fi pubbliche a cui agganciarsi «cosa che con il disco appena fuori è una rogna». E liberi, da catene discografiche, tanto da includere un brano uscito un anno fa come Le ore piccole perché «l’unico felice del disco, un brano cazzone deve sempre esserci».
Ma anche dall’equilibrismo di vivere questo limbo «in cui non siamo gli ultimi arrivati ma non siamo neanche arrivati del tutto». Guardando indietro sembrano lontani anni luce – per restare in tema universo – i tempi di Noi non siamo infinito, «quando appena usciti dall’università vivevamo lo squilibrio tra le aspirazioni che ci avevano fatto credere di poter inseguire e il primo passo nella realtà adulta, violenta. Come un bimbo che sbatte i piedi». Il bimbo con il secondo disco, Alcol, schifo e nostalgia ha preso coscienza, sempre più profonda, che alla fine “Nella gestione di questo disagio. Siamo ancora dei dilettanti”, come cantavano in La Provincia.
Ora dilettanti, della vita e della musica non lo sono proprio più. Così, il cambiamento: nei suoni e nei temi. E l’amore, raccontando un vissuto intimo e personale, senza temere di parlare di voglia di tenerezza – per cui comunque detestarsi come cantano in Uragani – e di felicità. «Ho sempre detto – ammette Ivo – che Ossa sarebbe stata l’unica canzone d’amore, ora ne ho scritte 10. È il racconto di vivere un amore serio, maturo».
Ricordano il momento in cui tutto è cambiato, precisamente un anno e tre mesi fa. Dai discorsi da furgone di una band che dell’instabilità ne ha sempre fatto una forza, «perché ogni tour poteva essere l’ultimo e questo ci permetteva di fare sempre un gran macello». E per difendersi da «una sorta di “Alcol schifo e nostalgia 2” che stava nascendo, ma sapevamo ci ci stava stancando» è arrivata la rivoluzione, di squadra e di approccio. «Ci siamo detti: non viviamo di musica, non dobbiamo per forza vendere e fare concerti, possiamo fare quel che vogliamo. Perciò facciamolo».
E tutto è stato naturale. Ivo aveva dei brani pronti, li ha fatti sentire a Domenico, che li ha prodotti e mixati (eccetto Le ore piccole, Uragani e Korea prodotti da Mattia Cominotto). E lo hanno registrato tra il Greenfog Studio di Genova e lo stesso Biscottificio. «Sapevamo che non era più un disco da band. E poi, mentre registravamo, davanti a una birra, abbiamo notato che nei testi c’era un continuo pendolo. Tra l’aspirazione astrale e i rimandi alla piccola realtà di paese, tra l’universo e la provincia. Un amico ci disse, “Come l’Ipergigante, la stella prima che collassa e diventa buco nero”».
Quindi dopo questo disco, ci sarà il buco nero? «Se fosse così ne sarei molto orgoglioso», sorride Ivo. «Anche il pubblico lo sta capendo, si è allargato, abbracciando una grande componente femminile, che bilancia il testosterone che ci ha sempre accompagnato sotto ai palchi». E si sta dimostrando pronto ad abbandonare l’idea di ritrovare quegli stessi Voina a cui erano assuefatti perché, si sa, le vertigini sono sempre meglio delle abitudini.
I “vecchi” fan non si sono ritratti davanti alle confessioni rassegnate, come in Mdma, nella triste speranza di voler “essere felice la metà di me che sei felice la metà di me”. Si sono riconosciuti nella sensazione di sentirsi comunque sempre diversi perché “dopo tutto la Korea non ha torto anche oggi io farei saltare in aria il mondo”. Hanno capito che se l’esterno scorre, l’interno si accetta, come intonano in Blu, “in fondo non è male essere sempre gli ultimi, meglio due pazzi strani un po’ infelici e stupidi”.
E hanno tutti acquistato, almeno idealmente, un biglietto per il Luna Park dei Voina. Salendo sulla ruota panoramica della vita e sulle montagne russe emotive dei palchi. È qui che i Voina si preparano a portare tutto questo. Già da Milano, al Circolo Ohibò, dove si sono esibiti ieri, con una formazione a cinque con Mattia De Iure, Mauro Bucci e Andrea Paone tutta rinnovata, a una settimana dalla pubblicazione del disco. Poi gireranno l’Italia «ma sarà figo, siamo scarponi e ci saranno i chitarroni, i pezzi vecchi li faremo come vanno fatti ma stiamo lavorando molto sulla qualità estetica. Non facciamo i “sugheri” che suoniamo sulle basi».
Perché sono loro, per cui, – non proprio con uno sguardo ottimista come in “Shinigami”, invocando la divinità della morte – la felicità è un arrivo. Che presuppone comunque un percorso di immersioni nel buio e slalom tra luci troppo forti, sentendosi delle fioche fiammelle. Perché “tu dimmi quello che vuoi, tanto non cambierò mai. Ma quando guardiamo tu vedi le stelle, io il nero in mezzo. Io non vedo niente”. E abbiamo imparato che alla fine, quel niente che vedono loro, nel loro specchio e nel riflesso dei fan, nasconde il tutto. Quello che ognuno sa di essere ma che ha paura di conoscere, finché non ammette di poter essere, almeno un momento, Ipergigante.