L’ultima volta che Francesco Motta ha suonato a Torino, aprendo il concerto dei The Jesus And Mary Chain in occasione del Todays Festival, era ancora estate sul palco dello Spazio211 e sembrava, come ogni anno, che l’autunno non sarebbe mai arrivato. A distanza di tre mesi da quel giorno, invece, le temperature si sono abbassate e per Motta è finalmente giunto il momento di spegnere trenta candeline sulla sua torta di compleanno e sulla fine dei vent’anni. Ed è proprio questo il tema, nonché il titolo del disco che l’ha accompagnato durante il 2016 rappresentando la genesi di una trasformazione cominciata quattro anni fa tra la campagna toscana e l’Urbe.
Per tanti neoadulti il limbo tra i venti e i trent’anni è un’occasione per fare bilanci sul futuro imminente, ma è anche la fase in cui capire gli errori e i meriti del passato. Motta è il portavoce di una generazione forte e allo stesso tempo impotente, ma è soprattutto una voce fuori dal coro, un timbro che nessun talent potrà mai catturare o siglare. Per questo motivo ha destato forte interesse nei confronti del pubblico e della critica che ha deciso di premiarlo con la Targa Tenco per la Miglior Opera Prima e con il Pimi Speciale 2016 conferito dal MEI, il Meeting delle etichette indipendenti.
Arriviamo all’Hiroshima Mon Amour e, incrociando gli sguardi delle persone che sono qui stasera, capiamo che le aspettative nei confronti di questo concerto sono molto alte. Motta sale sul palco febbricitante, ma catalizza l’attenzione e ferma anche chi continua a sussurrare frasi all’orecchio del vicino. La sua figura allampanata è spostata da una parte all’altra del palco da una matassa di capelli ricci e corvini che lo aiutano, però, a bilanciarlo.
In scaletta, tra le tante canzoni, ci sono Sei bella davvero e La fine dei vent’anni che attraversano tutti con una forte e vibrante energia, ma arriva all’improvviso anche il momento per una cover di Fango, che rappresenta le origini del proprio bagaglio musicale plasmato all’interno dei Criminal Jokers. Sul palco con Motta c’è un’Italia giovane composta da artisti polistrumentisti che si sono fatti le ossa suonando sempre e ovunque nei club. Dietro la batteria troviamo Cesare Petulicchio che insieme ad Adriano Viterbini è l’altra metà dei Bud Spencer Blues Explosion, mentre rispettivamente alla chitarra, al basso e alle tastiere ci sono Giorgio Maria Condemi, Federico Camici e Leonardo Milani.
Per Roma stasera e per Abbiamo vinto un’altra guerra si aggiunge un sesto uomo, il virtuosissimo chitarrista e compositore Paolo Spaccamonti che è soltanto una delle molte figure che ruotano intorno al progetto solista del cantautore livornese. Ciò che ci lascia complessivamente più colpiti è la sinergia della band, la capacità di far risaltare la figura di Motta, ma al tempo stesso di sapersi ascoltare. È raro trovare bravura di questo calibro perché non si tratta soltanto di pulizia del suono e di perfezione, ma di un modo del tutto inaspettato di comunicare attraverso gli strumenti.
Uscendo dal locale, immersi tra la nebbia e l’umido di via Bossoli, ci chiediamo ancora come Motta sia riuscito a incantarci con la sua naturalezza e come abbia potuto creare questa poesia contemporanea che tralascia le frasi fatte e parla dritto al cuore. In questo disco d’esordio c’è lo zampino di Riccardo Sinigallia, ma si tratta soprattutto di intelligenza: le parole non si nascondono dietro un motivetto orecchiabile o a delle rime baciate senza senso compiuto. La sera è fredda, entriamo in macchina, arriviamo a casa e continuiamo a tremare. Non è per i gradi sotto zero.