Se mi avessero detto “Andiamo al cinema a guardare l’ultima fatica di Spielberg?”, probabilmente mi sarei fatta fuorviare da immagini di dinosauri e biciclette volanti ed avrei risposto di no. Ma se il film in questione si chiama Lincoln, raccoglie 12 nomination all’Oscar e per di più è proiettato in lingua originale sottotitolato, la tentazione si fa troppo forte. Dopo un intermezzo ai confini del surreale in cui il film parte per due volte senza sottotitoli, va avanti entrambe le volte per dieci minuti scatenando il panico in sala, ed infine al terzo take incomincia nel verso giusto ma introdotto dalla schermata INTERVALLO, questo spaccato di storia americana di metà ‘800 ci viene presentato con una sanguinosa e fangosa scena di guerra, in cui neri e bianchi, fasciati in uniformi che differiscono solo per la diversa sfumatura di blu, si ammazzano e si affogano nel fango senza pietà. Ma non vi illudete: in un film che racconta la guerra di secessione, questa sarà l’unica vera scena di guerra. Sì perché Lincoln è un film di politica e non di storia, è giocato sul dialogo, sulla strategia, sullo spessore degli statisti e sulle discussioni al Congresso. Mentre i giovani e gli schiavi venivano spediti a fare carne da macello, il presidente proponeva il 13°emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, l’abolizione della schiavitù, un disegno di un progressismo inaudito ma sostenuto dai Repubblicani conservatori e radicali, contro dei Democratici che appaiono come retrogradi schiavisti, viscidi, corruttibili. La guerra di Lincoln si combatte in parlamento, ed è serrata, all’ultimo voto, prevede atti al limite della legalità ed arringhe che entreranno nella storia.
Abraham Lincoln è posato ed appassionato di aneddotica come un nonno, è un padre devoto ma non equo fino in fondo, è un marito sotto pressione e schiacciato dai sensi di colpa, è infine, ma soprattutto, un uomo politico che si fa togliere il sonno dalla frustrazione di essere responsabile della guerra di secessione e del suo eventuale scioglimento. Il compito assunto da Lincoln non è semplice: deve infatti convincere un agguerritissimo Congresso ad approvare l’abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti (un primo passo in tal senso era già stato fatto con la Proclamazione di Emancipazione, che rendeva gli schiavi liberi in tutti gli stati non comandati dai Ribelli), ma al tempo stesso deve trattare per la pace, alla ricerca di un equilibrio politico delicatissimo e che tira in ballo milioni di vite umane. Ma è solo grazie a questo gioco ben riuscito che oggi l’America può vantare un presidente nero, per di più di fazione opposta rispetto al repubblicano Lincoln, è grazie a questi passi che si è poi potuto parlare di voto ai neri e di suffragio universale (concetti che all’interno del film vengono presentati come fantascienza). È toccato ad un magistrale Daniel Day Lewis riportare in vita il presidente che iconograficamente è ricordato con la tuba e la barba lunga, ed infatti non mancano i riferimenti a questo simbolismo: già mentre si reca al teatro dove sarà (la storia insegna, niente spoiler) assassinato, Abraham è ripreso di spalle, controluce, si allontana in una nebbia che ne disegna la sagoma cappelluta; Lincoln sta abbandonando il mondo dei vivi per entrare nella Storia dei grandi.
Da qui inizia il compito di noi spettatori: non dobbiamo cadere nel fin troppo facile inganno del “che palle, un film storico”, ma usare le emozioni che la maestria registica di Spielberg riesce a suscitare anche in un film quasi completamente freddo (la scena della votazione è commovente, c’è poco da dire a riguardo) per far risvegliare la nostra coscienza politica, la nostra capacità di prendere posizione e credere in ideali grandi, universali, come quelli che hanno costruito gli uomini del passato e che spesso noi uomini del presente calpestiamo, dimentichiamo ed abbassiamo a desolanti ragionamenti elettorali. Ma se invece volete vedere un film sulla schiavitù che vi tenga incollati alla poltrona e contenga sangue e sparatorie, allora fate il biglietto per Django e non pensateci troppo su.
Federica Rinaldi
Anzitutto bisogna dire che Lincoln fa tornare subito alla mente Morrissey (ma questa è colpa di Daniel Day Lewis), o del ciuffo, dello sguardo aggrottato: Lincoln è la rockstar del partito repubblicano, quello che farà passare il Tredicesimo Emendamento che abolirà la schiavitù negli Stati Uniti. Ehssì: sono i repubblicani a imbastire una lotta abolizionista all’ultimo sangue con i democratici americani.
È uno di quei film in cui resta difficile immedesimarsi per una persona che vive nel XXI secolo: c’è la tuba del Presidente, e ci sono idee retrograde come ”non tutti gli uomini sono uguali”, e oggi è invece un dato di fatto (sulla carta) il concetto dell’uguaglianza (legale, razziale, checchessia). È chiaro però che se nel ”nostro mondo” possiamo dire con grande sollievo che tutti gli uomini sono uguali è anche merito di persone come Abraham Lincoln: lottare per i diritti degli altri non è masturbatorio come lottare soltanto per i propri. C’è una grande umanità in questo Presidente americano che finisce per morire mortammazzato dopo aver fatto passare la lotta di una vita intera, e restare nella storia per aver concesso ai neri il diritto bianco. ”La più grande distruzione della proprietà privata della storia del mondo occidentale” (cfr. Palmer) è raccontata nel film: ed è meraviglioso come un gruppo di repubblicani lotti contro il proprio tempo e il proprio vantaggio, perchè gli interessi dei grandi coltivatori americani del Sud non erano certo quelli di liberare forza lavoro gratuita.
Quello che manca forse alla trama è un po’ di contestualizzazione dei fatti: è difficile collegare tutti i pezzi della storia americana così al buio, dunque restano alcune curiosità sul finale del film, cosa che non è necessariamente un male. Per esempio, c’è una guerra tra gli Stati del Sud e quelli del Nord, e non ti è chiaro realmente per cosa stiano combattendo, e forse Spielberg avrebbe dovuto spiegarlo un po’ meglio, visto che sono trascorsi quasi due secoli intanto. Il Sud lotta per conservare i propri interessi, sostenuti dal Partito Democratico; a Nord c’è il governo americano e il Congresso dell’Unione, che vuole riappropiarsi dei ribelli del Sud. Abolire la schiavitù è anche uno stratagemma politico per riconquistare quella parte di paese. È chiaro che stiamo guardando una sorta di bio-pic che si concentra sull’ultima parte della presidenza Lincoln, è il ritratto di un certo momento della nostra storia che avrà un impatto fondamentale sul corso del futuro: è un tema molto caldo ultimamente quello della schiavitù dei neri d’America (anche se poi c’è da ricordare che più o meno la stessa dinamica è successa con i nativi americani), forse abbiamo proprio bisogno di lavarci un po’ le mani dallo sporco e ammettere di aver commesso un grande reato in quanto razza bianca. Non che le scuse valgano granchè, perchè i segni di una frusta sulla schiena o le violenze non si lavano certo con un ”ciao negro scusami’‘. Però queste storie ci possono far comprendere dove potremmo sbagliare anche oggi, quali sono gli aspetti violenti che ci illudiamo a credere siano giusti, per quali diritti altrui dovremmo imbastire una lotta simile a quella portata avanti dai repubblicani americani (fosse anche per pararsi il culo).
Gio Taverni