Se state cercando il grande romanzo americano o la tradizione narrativa americana in salsa Franzen, state alla larga da Lincoln nel Bardo, il nuovo (e primo) romanzo di George Saunders. C’è molto più Dante e John Milton di quanto possa esserci Mark Twain, e la tradizione narrativa che da lì segue. Ci sono echi di gran teatro, potremmo facilmente immaginarne una trasposizione teatrale in stile shakesperiano / brechtiano. Quello che ha fatto Saunders è sorprendente, diciamo pure che ci ha spiazzato con una storia quasi cantata, a metà tra narrazione realistica che va a scavare la grande storia americana (epoca di Abraham Lincoln) e contro-canto a più voci: delirante, profondo, misterioso, nel suo evocare una Spoon River ricca di umanità.
Ma andiamo con ordine, perché non è facile l’approccio a questo libro. Ci potrebbe essere un attimo di disorientamento nel lettore, ma solo perché non siamo più abituati a una certa tempra della narrazione. Dobbiamo leggere a Saunders come leggeremmo un Omero, o il cantastorie di una nazione, un Geoffrey Chaucer della contemporaneità: una volta trovata questa chiave la lettura sarà un’esperienza tutta da godere. E non abbiate paura se salterà fuori un po’ di magia o di mistica, l’aldilà dantesco, il purgatorio, dialoghi e monologhi infarciti di bella ironia. Alla prima prova con il romanzo (e la narrativa non breve) Saunders scrive qualcosa che va al di là del romanzo stesso, e non è un caso che il Washington Post abbia parlato di questo libro come qualcosa che rimette in discussione la nostra idea di romanzo.
Il Bardo è il limbo della tradizione buddhista, quel momento in cui la coscienza si separa dal corpo dopo la morte e ci troviamo in uno stato a metà tra la nostra vita passata e quella successiva. Dunque, non è il limbo di cui ci narra Dante, semplice luogo di attesa delle anime in cerca di trovare un posto tra i vari “mondi” dell’al di là (paradiso, inferno, e quel purgatorio che fu lo stesso Dante a inventare da grande scrittore e creativo qual fu – un’invenzione che il cattolicesimo ha ben saputo fruttare). In questo mondo sospeso nasce la storia, e si sviluppa come una vera e propria meta-comunicazione tra il Bardo dove ci sono le anime sospese e il mondo dei vivi, che continua ad andare avanti, nonostante tutto. Nonostante la grande verità e l’evidenza più spietata delle nostre vite: eppur si muore.
Così nella collezione umana immaginata da Saunders c’è spazio per Abraham Lincoln, il Presidente repubblicano famoso per aver abolito la schiavitù, ma anche per il figlio – il piccolo Willie Lincoln che muore a 11 anni lasciando un gran vuoto nel cuore del padre, e si commiata nel mondo dei sospesi, nel Bardo, accompagnato da una collezione di figure stravaganti come Hans Vollman, Roger Bevins III e il reverendo Everly Thomas, l’unico che si scoprirà avere consapevolezza di essere nel limbo.
Saunders ha pensato per anni a questo romanzo, sin da quando ha sentito un aneddoto sulla morte del figlio di Abraham Lincoln, avvenuta durante gli anni della Guerra Civile americana. L’aneddoto diventa il semplice pretesto per raccontare una storia che è ricca di umanità, e del resto Saunders non si è mai risparmiato l’aspetto profondamente umano della sua scrittura nemmeno nella narrativa breve.
Poi mio padre mi toccò la fronte con la sua. Caro figliolo, disse, tornerò. Te lo prometto.
willie lincoln
Sconvolto dalla perdita del figlio Willie, il Presidente va a trovare la salma del figlio nella cripta dov’è seppellito, nel cimitero di Oak Hill a Georgetown (Washington): è il Presidente, e può permettersi tutto, allora perché non farsi dare le chiavi dal guardiano, per rivedere un’ultima volta quel corpo imbalsamato, abbracciarlo, toccarlo e scoppiare a piangere? Questa improvvisa apparizione di un uomo – soltanto un uomo – che tocca un corpo morto (o forma malata, come preferiscono dire i sospesi) creerà un certo scalpore nella comunità dei non vivi. Disabituati ad avere certe attenzioni dai “vivi”, l’irruzione presidenziale diventa un evento che mette a ridiscutere i sospesi, gli dà speranza: forse si può davvero tornare indietro?
È così, nella sua evocazione e protesta metafisica, che il Bardo immaginato da Saunders diventa un’esperienza letteraria profonda, e un sogno onirico che si costruisce e anima pezzetto per pezzetto, in cui i personaggi sanno armarsi di grande ironia, e mettere in scena – in fondo – quella che è la nostra grande storia: la vita. E come la letteratura cerchi di riprodurla, con tutte le sue irregolarità e ossessioni.
Così i personaggi sembrano umanizzarsi pur essendo spiriti, ognuno di loro ha una sua vicenda personale e una sua storia particolare che rendono il conto di quella che è la diversità umana. Saunders usa prose e immaginari diversi per personaggi diversi: nessuno parla allo stesso modo, com’è giusto che sia quando si scrive di una collezione di uomini di estrazione e sensibilità differenti. Alcuni zoppicano con le parole, altri provano a simulare magnifiche orazioni. Ne esce fuori un canto corale, che mette in scena la grande storia americana e le fa fare i conti con l’uomo. Perché la storia è una collezione di incastri di minuscole vicende, che sono quelle di tanti piccoli uomini e dei loro presidenti.