True love blooms for the world to see / Blooms high upon the July tree
Nina Simone, July Tree
Qual è l’ultima volta che avete corso? Non per un motivo preciso: per un treno in partenza, per non bucare un volo aereo, per correre dietro un autobus, perché perennemente in ritardo. No, nemmeno per tenervi in forma. Semplicemente perché qualcosa nel vostro corpo vi diceva di muovervi a una velocità diversa, di lasciare andare piedi e muscoli, di sentire l’aria fendersi al vostro passaggio, senza alcuna meta, soltanto in preda a una smania gioiosa e allegra e, sopra ogni cosa, spontanea e naturale.
Ecco, se avete avuto il coraggio di rispondervi con onestà già sapete, dentro di voi, di cosa parla davvero il nuovo e nono lungometraggio di Paul Thomas Anderson, Licorice Pizza, uscito nelle sale italiane lo scorso 17 marzo.
Come per tutti gli altri suoi film, è la prima scena a raccontare molto di ciò che verrà, una sorta di marchio di fabbrica impossibile da contraffare. Non c’è fotogramma del suo cinema che non sia immediatamente riconoscibile, segno distintivo di uno tra gli ultimi registi di Hollywood per il quale non è improprio spendere l’appellativo di “autore”. Sulle note morbide di July Tree di Nina Simone, veniamo in un attimo catapultati in una classica high school degli Stati Uniti d’America, dove una donna in camicia e shorts – che scopriremo essere l’annoiata assistente del fotografo dell’annuario scolastico – passa in rassegna, con uno specchio tra le mani, una fila di studentesse e studenti. Quand’ecco che dalla stessa fila si stacca uno di quei ragazzini – ha appena quindici anni – che, nonostante la differenza di età evidente – Alana Kane, questo il suo nome, ha certamente più di vent’anni: venticinque, ventotto addirittura – la invita con insistenza a cena. In un lungo e, come sempre, meraviglioso piano sequenza vediamo il tentativo di conquista così sbilanciato e per questo incredibilmente tenero tra una giovane donna irrisolta e impacciata e un ragazzino sovrappeso, dal ciuffo alla Brian Wilson, dotato di un’incredibile sicurezza in se stesso e di un sorriso che è la chiave per aprire ogni porta.
Quella sera stessa, Alana, senza alcun motivo apparente se non la noia, e una vita che già sembra averla delusa, si presenta all’appuntamento in uno dei tanti locali di cui il film è costellato e in cui Gary Valentine – questo il nome d’arte dell’adolescente, aspirante attore – è praticamente di casa, per girare, inconsapevole, le chiavi che accenderanno il motore del film e del suo possibile futuro.
Siamo nella San Fernando Valley, contea di Los Angeles, dove non solo P.T. Anderson è nato e cresciuto, ma che rappresenta il luogo stesso che ha dato corpo al suo immaginario di sceneggiatore, regista e raccoglitore di storie, fin dal successo enorme di Boogie Nights – che raccontava lateralmente la storia di John Holmes e per estensione la stagione gloriosa del porno degli anni settanta con la Valley protagonista assoluta delle case di produzione del tempo – per poi arrivare a quello straordinario racconto corale e profondamente altmaniano che fu Magnolia.
Un luogo a cui P.T. Anderson ritorna sempre, dentro a un cinema che tante volte ha saputo raccontare l’America – quell’America – attraverso uno sguardo a un tempo scanzonato e malinconico insieme, capace di parlare dell’universale partendo dai piccoli particolari di una vita trascorsa davvero a pane e pellicole che da sempre, dagli esordi praticamente, è riuscito a configurare come un indicibile atto d’amore per il cinema e i suoi corollari di personaggi limitrofi.
Nella sua carriera ormai quasi trentennale Anderson ha anche sapientemente saputo scartare dall’universo losangelino che gli è caro, dall’ultimo Phantom Thread certamente ma anche in quei due grandissimi film che furono There will be Blood (per chi vi scrive l’opera cinematografica più importante del terzo millennio e parabola straordinaria dell’America capitalista) e The Master; film che in un possibile parallelo letterario rappresentano i “romanzi” di P.T. Anderson, tutti costruiti, di fatto, su due soli personaggi e sui rapporti di forza che s’innestano in ogni possibile relazione umana: società capitalista e chiesa protestante, maestro e discepolo, fino al rapporto tra sarto e modella che si trasformava in una relazione intellettualmente sadomasochistica ne Il Filo Nascosto. Altrove – e cioè fuori da questi tre film – il rapporto con la metafora cine-letteraria di Anderson è tipicamente legato alla struttura narrativa dei racconti brevi dei grandi autori americani del Novecento e di uno in particolare: quel Raymond Carver le cui short stories, appunto, furono il modello su cui venne costruito uno dei capolavori di Robert Altman, quell’America Oggi (proprio Short Cuts in originale) cui tanto Anderson pure deve. Del resto non è esagerato dire che anche il suo debito con Carver è filtrato dall’esperienza cinematografica – da fruitore, seguace e collaboratore – del regista di M*A*S*H e Nashville.
Non è certo un mistero che Altman non solo sia stato – lo è tuttora – il riferimento principale di Paul Thomas ma ne fu, di fatto, vero e proprio maestro. L’ultimo film del regista di Kansas City, Radio America (A Prairie Home Companion) – prima di morire nell’autunno dello stesso anno, il 2006 – fu materialmente girato proprio da Paul Thomas, come atto d’amicizia e d’amore verso il grandissimo cineasta che, in quell’occasione, ebbe a definirlo “la mia ombra silenziosa e discreta”.
Licorice Pizza si colloca apertamente in questo solco tracciato – si potrebbe dire a più man – che, solo per restare a una filmografia che cita se stessa, sembra porsi tra quell’Inherent Vice che fu omaggio a Thomas Pynchon – la cui malinconica e deragliata allegria dell’ultima stagione d’oro californiana, prima che il sogno svanisse davanti all’orrore di Charlie Manson e di Cielo Drive, era filtrata dalle suggestioni ancora di Altman, quello de The Long Goodbye (1973) dal romanzo di Raymond Chandler – e il suo unico film ancora oggi incredibilmente sottovalutato, la commedia apparentemente scanzonata Punch-Drunk Love che nascondeva in filigrana tutte le difficoltà dell’amore tra persone ferite dalla vita e dal loro personale percorso, cui si deve – ancora – una delle scene di apertura più belle del suo cinema.
Licorice Pizza è ambientato proprio nel 1973 e racconta del reciproco riconoscersi che ogni incontro può portare con sé. Ed è, esattamente, ciò che avviene ai due protagonisti: se Alana Kane è una donna sospesa tra le tradizioni di una famiglia ebraica e il desiderio confuso di una vita diversa, unico elemento irrisolto dentro mura domestiche almeno apparentemente compiute, incapace, com’è, di trovare una propria strada e qualcosa cui – in maniera immatura, forse, ma certamente onesta – appartenere, Gary Valentine è un ragazzino pieno di amore per la vita che, quotidianamente, cerca con entusiasmo di costruirsi un futuro e che divora ogni singolo frammento di tempo con l’ansia tipica di crescere che appartiene all’adolescenza.
Eppure, quello che legherà entrambi sarà proprio ciò che di sé vorrebbero celare allo sguardo dell’altro. Sono i momenti in cui sul volto di Gary appare la delusione del non essere ricambiato che inteneriscono Alana, sono tutte le scelte sbagliate di quest’ultima, il suo essere – a tratti – goffa e indecisa, a renderla vicina al ragazzino che, in fondo, è Gary. La loro – per le due ore e un quarto del film – è la danza che unisce due personaggi che nemmeno fanno tanto per essere amati dal pubblico: Gary, che nasconde tutta l’insicurezza di giovane attore lanciatissimo sul circuito californiano dietro la divertita tracotanza dei suoi quindici anni; Alana, che la stessa insicurezza prova a celarla sotto un atteggiamento ora sarcastico ora decisamente respingente e che pure reagisce, chiudendosi finanche alle sorelle, la cui vita è su sentieri decisamente più morbidi e regolari.
C’è una scena bellissima ed emblematica in cui dopo un’incredibile fuga in camion senza un goccio di carburante, per giunta in completa retromarcia, Alana, seduta sul bordo di un marciapiede, vede la banda di ragazzini, tutti più piccoli di Gary, che si divertono – facendo davvero gli scemi – e distoglie lo sguardo alla ricerca immediata di un futuro – prossimo – che possa essere diverso grazie all’impegno politico – e in cui è difficile non intravedere la Cybill Shepherd del Taxi Driver di Scorsese/Schrader. Ecco, in quella scena c’è molto di questo film, del confronto tra un desiderio di libertà finalmente trovato lì, nel solo posto dove ci si sente a casa e una società che la vorrebbe spingere sui binari di una vita necessariamente adulta. È nell’incontro con il ragazzo Gary – e non con gli uomini che pure incontrerà nel film – che Alana riuscirà a essere se stessa. E di là dal finale – bellissimo e gioioso di cui niente racconteremo ma che, pure, per fortuna, non smusserà le loro personalità – è proprio attraverso questo mescolarsi con una banda di ragazzini, appunto, un universo solo anagraficamente lontano da lei, che Alana scoprirà un’autenticità che la farà finalmente sentire parte di qualcosa di vero, di sincero e non costruito.
Gli uomini o sarebbe meglio dire gli adulti che si troveranno sul suo – sul loro – cammino, sono la quintessenza dell’universo umano proprio del cinema di P.T. Anderson. Una pletora di sconfitti, emarginati, liminari che, nonostante il trascorrere degli anni, continuano a restare immersi in un mondo ormai nostalgico se non immaginario: uno straordinario Sean Penn – corteggiato fin dai tempi di Boogie Nights – qui nei panni di una vecchia gloria hollywoodiana, Jack Holden (costruito sul vero William Holden de The Bridges at Toko-Ri con Grace Kelly), un enorme Tom Waits che con la sua voce rauca di mille discariche interpreta Rex Blau, vecchia gloria registica, fino al buffo villain cui dà corpo un incredibile Bradley Cooper, un reale Jon Peters – nel ’73 in una burrascosa relazione con Barbra Streisand – cui si devono alcune delle scene più surreali, psichedeliche e divertenti del film.
Di contrasto, invece, il mondo dei ragazzi è pieno di luci, idee, colori, dominato da una spinta vitale che appare irrefrenabile. La scena dell’arresto durante una fiera per teenager, ha gli stessi colori dell’irruzione della polizia in Fragole e Sangue sulla rivolta di Berkley. Perché Licorice Pizza è un film profondamente politico, e non perché sia direttamente attraversato da quelle istanze, tutt’altro. Ma perché racconto dei sogni di una gioventù che una società ingessata ha distrutto senza alcuna pietà, mentre Gary, Alana, i loro amici corrono e corrono: sotto la pioggia, dopo lo scampato arresto sulle note di But You’re Mine di Sonny & Cher (la Ragazzo Triste di Patty Pravo) e in un’altra scena bellissima che vede Gary e il suo fratellino Greg (Milo Herschlag) precipitarsi tra le auto in coda a una pompa di benzina durante la grande crisi petrolifera, allegri e felici, mentre urlano sulle note di Life on Mars? che “il mondo sta finendo!” perché anche quella cosa – la fine – non è una tragedia ma cambiamento, un’opportunità, l’occasione di un mondo nuovo e di una vita che aspetta e della quale non se ne ha mai abbastanza.
La grandezza di Licorice Pizza sta nel raccontare questa piccola storia dalla trama esile come ogni amore adolescenziale, adattandone lo stile alle atmosfere che desidera far venire fuori e insinuare nello spettatore. È uno dei tratti più incredibili del cinema di Paul Thomas Anderson: in lui la macchina da presa, in qualche misura protesi di un intero modo di guardare al cinema, è lo strumento attraverso cui sa di poter scegliere se imprimere una traccia lieve – come per questo film – per donare alla pellicola lo spirito di una nostalgica leggerezza, oppure segnare altrove il marchio inconfondibile di una profondità scavata nelle rocce di Big Sur.
Mentre sullo schermo scorrono le immagini di una primavera californiana come stagione della vita, e uno score incredibile ricco di canzoni evocative – curate da Jonny Greenwood – riempie le orecchie degli stessi colori, non si può non sottolineare l’ultimo e forse in realtà principale segreto di Licorice Pizza: due attori che appaiono entrambi splendidi al loro esordio. Dietro Alana Kane si cela Alana Haim, delle Haim – protagoniste di un soft rock californiano, per le quali Paul Thomas ha girato diversi video – qui impegnata nel ritratto di una donna che riesce finalmente a non nascondersi più dietro le convenzioni cui ha cercato di cedere nei suoi quasi trent’anni. Figlia, insieme a Danielle ed Este, della maestra d’arte di un Paul bambino (nel film recita la famiglia al completo).
Ma è soprattutto dietro Gary Valentine che si nasconde il motivo per cui Licorice Pizza non è soltanto un atto d’amore per il cinema e per un’epoca ma per un amico che non c’è più.
A prestare il sorriso e un talento impressionante per i suoi diciannove anni a Gary Valentine è Cooper Hoffman, figlio del grandissimo Philip Seymour che a P.T. Anderson ha regalato interpretazioni indimenticabili fino al Lancaster Dodd di The Master e scomparso improvvisamente nel 2014, vittima di quei demoni che spesso, come in un contrappasso, accompagnano il talento. Quando è stato chiesto ad Anderson se Cooper avesse mai recitato, lui ha risposto così: “Ha anni e anni di esperienza nei miei filmini familiari. Tipicamente film d’azione in cui veniva picchiato da un brutto ceffo interpretato da mio figlio che eroicamente lo lanciava da un dirupo o gli sparava dritto in faccia”. È bello pensare che le atmosfere di Licorice Pizza, lo sguardo che si poggia lieve sulla giovinezza e gli anni settanta della San Fernando Valley, il ricordo della sua adolescenza, della famiglia Haim e di una Hollywood scomparsa, siano anche questo: un modo per guardare al futuro e indicare, attraverso il giovane Hoffman, che nulla si spezza e scompare per davvero.