È un dato di fatto: nella vita si piange e neanche poco. Spesso e volentieri. Mai davvero quanto si vorrebbe. A volte si rimandano indietro le lacrime. Ci si piange dentro. Da soli, in compagnia, in casa, per strada. Giusto per farvi un esempio e parlare di quelle poche cose che conosco bene, io sono una piagnona. Piango tantissimo. Anche adesso, nonostante faccia ancora un po’ di fatica a considerarmi adulta a pieno titolo, piango quasi sempre da sola. Potete trovarmi lì, immersa in quel sentimento a metà tra disperazione profonda e un po’ (poco) di quel pudore proprio di chi non vorrebbe farsi vedere piangere da nessuno. Sì, forse è proprio questo quello che mi succede.
Eppure, se dovessi fare come Heather Christle, l’autrice di The Crying Book – pubblicato recentemente in Italia da ilSaggiatore con il titolo Il libro delle lacrime nella traduzione a cura di Giulia Poerio –, e stilare una vera e propria mappa di tutti i luoghi in cui ho pianto in vita mia, sarei in difficoltà. Non perché non me ne ricordi, figuriamoci. Per portare a termine un lavoro del genere, bisogna essere avvezzi all’empatia, allo studio e alla poesia. E Heather Christle, che proviene proprio dalla poesia, ci riesce benissimo.
Ho paura che, se scrivo tanto sul piangere, la legge universale dell’ironia sarà tentata di invitare la tragedia ad accomodarsi nella mia vita.
Il libro delle lacrime nasce dall’idea della famosa mappa e poi si è man mano sviluppato grazie a tutte le pagine e ai collegamenti letterari e no che gli sono cresciute intorno. Un sondaggio, che l’autrice riporta, rivela che si piange tantissimo in aereo e che le coperte date in dotazione per il viaggio servano, appunto per nascondersi mentre si piange, per nascondere le lacrime. Al punto di immaginare che quella coperta potrebbe essere ancora umida delle lacrime versate dal passeggero precedente.
Non è solo Heather Christle a piangere, ovvio. Siamo tutti e tutte noi a farlo. E lo sappiamo. Dicevamo, appunto, nascondersi? È inutile. Questo Crying Book è profondo, strano, per forza di cose commovente e pure molto pop. Non si fa mancare niente. Inizia con un assunto: piangere ci rende belli solo se lo si fa in un film. Il mito del pianto discreto e bello da vedere non esiste. La maggior parte degli esseri umani, quando piangono, sono trasfigurati nel proprio dispiacere. Si scoppia a piangere anche di felicità, non dimentichiamolo, ma i grandi pianti disperati e disperanti probabilmente sono quelli che si restano maggiormente impressi nella mente dei più.
Che dire poi di quel Non sto piangendo, magari urlato nel mentre ci si trova in un mare di lacrime? Una negazione ostentata che apre un mondo su noi stessi e sugli altri. Arrivare a negare l’evidenza per proteggersi, non mostrare le proprie emozioni, tutelarsi dall’ambiente esterno.
Gli eventi, allora, di una vita, si potrebbero ridurre a un’agile simmetria: cadere, piangere, cadere. Se siamo in vena di riduzioni.
Tra memoir, aneddoti, rimandi scientifici e altre storie, Christle traccia un profilo acquoso, originale e vivo del fenomeno pianto, mai tralasciando l’apparato iconografico. Non solo: la sua analisi si allarga davvero verso la sociologia dal momento in cui inizia ad analizzare situazioni di privilegio in cui il solo fatto che il pianto esista sul volto di donna bianca, per esempio, e non su quello di una donna di colore, può essere in grado di spostare il centro di gravità di una stanza.
Una narrazione, quella di Heather Christle, di ampio respiro nella sua esiguità, che svela l’universo di significati che possono esistere dietro un atto naturale che spesso si tende a fare per scontato. Da leggere, anche per finire a ridere di gusto delle nostre stesse lacrime.