Al Salk Institute hanno realizzato un primo tentativo di ibrido uomo-maiale. Anche se ignoriamo totalmente la fattibilità del risultato ottenuto, le nostre menti si mettono in cammino per quello che sarà un lungo viaggio.
Philip K. Dick inserì i corpi di Ubik in macchine che riuscivano ad ibernare il loro stato fisico prossimo al deterioramento. Capsule contenenti un liquido che manteneva la materia così com’era prima che la putrefazione riuscisse a fare il suo ingresso in scena. Joe Chip – protagonista del romanzo – è il testimone perfetto di un’innovazione senza precedenti.
A guardarla con occhi stracolmi di ingenuità, l’invenzione letteraria di PKD sembrerebbe un risultato estetico facilmente equiparabile a quello di una bottiglia contente un corpo qualsiasi, un corpo che si è scelto di sottrarre alla fine prossima dei suoi giorni. Un corpo con cui puoi interagire in rare occasioni, un corpo che resiste al tempo e che si lascia bagnare da una sostanza nutriente che lo mantiene in vita.
Mi sorge spontaneo pormi il dilemma su chi sia il vero protagonista di una storia così perfetta nella sua forma. Ubik (Fanucci, traduzione di Paolo Prezzavento) è un tassello importante della letteratura sci-fi. In un ipotetico mosaico composto esclusivamente da opere decisive per lo scenario narrativo prediletto da Asimov, Ubik verrebbe collocato sulla stessa riga di uno dei suoi lavori. La storia della bomboletta spray più famosa della fantascienza cosa vuole indicarmi? Le peripezie di Joe Chip o la messa in discussione dello spazio e del tempo?
Alla fine, quelle che incontra Chip al Moratorium Diletti Fratelli altro non sono che provette sistemate in perfetto ordine. Ognuno contiene il caro di qualcuno, o il suo più acerrimo nemico, che sta per lasciare il mondo dickiano del 1992 – Ubik si apre con questa data – e che preferisce seguire nel suo lento trapasso. Sono corpi che fanno il loro ritorno ad uno stato fetale, lontano dalle proprie madri e sempre più vicini ad una realtà che sancisce il distacco dalla natura, dalla loro stessa biologia, e che decreta l’avanzamento deciso della tecnologia pre e post mortem.
È di qualche giorno fa la notizia del primo ibrido uomo-maiale. Non è il risultato della puntata di Black Mirror, quella dove in il Primo Ministro britannico fa sesso in diretta tv con un maiale. Si tratta invece di un tentativo vero e proprio concepito in laboratorio. Secondo gli esperti, l’esperimento non avrebbe poi ottenuto chissà quali grossi risultati, eppure la stroncatura etica non ha perso tempo; è arrivata puntuale come i treni di una volta, gettando luce su tutta una serie di pericoli che si possono incontrare lungo il percorso delle sperimentazioni in laboratorio. Non è il primo caso di ibrido, basti pensare a quello avvenuto tra ratti e topi. Tra le motivazioni che hanno spinto gli scienziati del Salk Institute a spingersi oltre i limiti della scienza stessa c’è stata la volontà di correre a riparare la falla della donazione di organi. Assicurare una continua disponibilità di parti vitali del nostro corpo senza ricorrere all’uso di cellule cerebrali. Ci sono sì gli organi, ma non i sentimenti.
Tralasciando l’aspetto etico di questa faccenda, quello che più mi ha colpito è la capacità di questo evento di richiamare alla mia attenzione narrazioni che si sono mosse in anticipo su questo fronte. Una reazione molto patetica la mia, l’ammetto. Tutta la letteratura sci-fi si muove su questi orizzonti da anni, ed io cado dal pero nel bel mezzo del 2017. Scorri le news sul tuo telefono, passi dagli investimenti di Musk per l’arrivo sul Marte fino ad arrivare al muro di Trump. Vuoi che una notizia del genere non provochi alcuna reazione? Insomma, l’ibrido uomo-maiale non è mica da tutti i giorni.
Al centro della lunga diatriba tra pareri contrastanti sui temi etici, quello che urta violentemente contro il soffitto del nostro appartamento è il corpo e la sua storia. Qui si tratta di qualcosa che abbiamo sempre tenuto segregato nelle stanze della nostra mente e che adesso – con molta scaltrezza – sta mettendo la testa fuori dal nascondiglio, oltre la porta tenuta chiusa a doppia mandata. Di biologia, biogenetica e analisi del sangue non ci capisco nulla, per questo motivo penso che non sia il primo caso di un esperimento del genere realizzato con cellule umane. Essere certi di avere il nostro sostituto pronto a darci qualsiasi cosa, è molto interessante – almeno sul piano organizzativo. Un gemello che nasce tra provette sterilizzate e beker di vetro, in una stanza tenuta rigorosamente alla giusta temperatura in modo da ostacolare la formazione di microbi e batteri pericolosi.
Nel suo Crash, J.G. Ballard parlava della perversione per gli incidenti stradali, di come questi attraggano tutti gli uomini, fino a realizzare quella che sarebbe divenuta una fusione tra corpo e auto. L’ibrido ritorna, prende vita e si afferma sul piano della narrazione. Se in Ubik qualcosa sembrava mettere in discussione la dimensione spazio-temporale della vita stessa, in Crash (Feltrinelli, traduzione di Gianni Pilone Colombo) viene ribaltata la visione del piacere, e con essa il corpo ibrido si riappropria di una sua potenza a dir poco erotica. Accorrere sui luoghi degli incidenti, rallentare con l’auto una volta giunti in prossimità del disastro, è un aspetto che irrompe – secondo il suo autore – nella dimensione intima del piacere.
Entrambi gli scrittori hanno rivolto i riflettori su aspetti importanti per la nostra esistenza. Da un lato lo scorrere del tempo e la mutazione dei luoghi, dall’altro i meandri di un erotismo dall’immagine letale. Allora verrebbe spontaneo tornare con la mente alla visione di uno scaffale del supermercato su cui campeggia l’offerta del giorno con tanto di grafica accattivante. Verranno serviti corpi in apposite bottiglie da tenere in frigo ad una temperatura costante, magari fissa sugli zero gradi.
Tra auto schiantate a folle velocità e sarcofagi che trasportano le menti altrove, il corpo, pur assistendo alla propria celebrazione, si intravede come unico protagonista incontrastato dei nostri tempi. Nonostante il fatto che le sue capacità riproduttive siano materia fondamentale del dibattito pubblico, il confine della sua genesi sembra esser stato oltrepassato. L’ibrido da laboratorio, l’uomo-maiale, è stato messo di fianco alla più floreale immagine che abbiamo del futuro genetico che ci aspetta al varco.
Per rendermi conto della notizia, ho cercato in tutti i modi di immaginarmi le forme del risultato ottenuto dagli scienziati del Salk Institute. Priva di qualsiasi testimonianza, l’articolo estratto dalla rivista scientifica Cell non era corredato di alcuna immagine. A quel punto ho lavorato di fantasia, cercando di fissare quelle forme da me tanto ricercate su uno stile che si rifaceva molto alla Guernica di Picasso, ma la cosa non mi soddisfaceva. Allora ho immaginato una creatura dalle sembianze umane con alcuni tratti molto simili a quelli di un maiale – un’immagine molto scontata – ma non era cambiato nulla. Allora mi sono ricordato di quella puntata di Black Mirror – sì, ancora lui – in cui la protagonista riceve dal corriere il pacco in cui è conservato il clone del suo compagno morto. Anche in quel caso le mie aspettative non sono state esaudite.
Più che chiedermi come potrebbe essere esteticamente il prodotto di un laboratorio, dovrei preoccuparmi dei problemi che da esso possono scaturire. Ne Il Signore degli Anelli, nella parte de Le due Torri, Saruman mette su la sua officina bellica. Tra tutta quella maestria artigiana spicca una sorta di fonte attraverso cui vengono generati gli orchi che popoleranno il vasto esercito del male. Come ben possiamo vedere, Tolkien ha messo in atto lo stesso meccanismo, ovvero la produzione di esseri viventi attraverso una procedura completamente diversa da quella usuale. Seppure relegato ad una sfera prettamente fantasy, quella degli orchi è una realtà che andrebbe presa in considerazione per via della forza motrice che ha nutrito la loro nascita, ovvero quella di ampliare notevolmente un esercito pronto a distruggere il proprio nemico.
Ho citato l’esempio de Il Signore degli Anelli non perché sono un fan sfegatato della trilogia di Tolkien, ma per via di uno dei commenti che campeggiava sotto il post della notizia pubblicata su Facebook: «In questo modo renderanno immortali le guerre». Non conosco affatto il tipo di persona che ha scritto tale commento, magari è lo stesso tonto che sotto gli articoli sui vaccini scrive che non sottoporrà mai i suoi figli a quelle iniezioni per lui tanto malefiche. Mi aspettavo di leggere stupidaggini del genere, per questo leggendo il suo commento ho riso per pura soddisfazione personale. Cazzo, la bioetica indaga costantemente questi punti cruciali e poi c’è gente che risolve il loro problema – quello di trovare una valida risposta al pericolo – lanciando allarmi da quattro soldi.
L’unico a poter dar vita ad una vera ribellione, torno a dire, è il corpo, lo stesso che si sta vedendo moltiplicato senza il suo nobile consenso. Da anni i medici inseriscono parti meccaniche dentro di noi, protesi agli arti e membrane cellulari che rispondono ad un codice genetico completamente diverso dal nostro, ma che riescono pienamente ad adempiere alle funzioni a loro richieste. Il corpo è stato dimenticato per il suo bene, per un funzionamento migliore, per la sua voglia di essere immortale anche quando la biologia lo vieta per natura. Un corpo che si lascia trattare come nucleo estraneo fino a lasciarsi cadere sul tavolo di un laboratorio asettico, illuminato tutto il giorno da luci al neon.
Philip K. Dick e J.G. Ballard, nel caso dei due romanzi sopracitati, hanno fatto del corpo il teatro ideale dove poter mettere in scena un’opera che andasse visibilmente contro natura, ma che allo stesso tempo non smettesse di marcare i tratti di connotativi di quello che siamo. Esseri mortali che fanno di tutto per resistere alla decomposizione di quello che, in fondo, sono stati. L’ibrido creato in laboratorio mette tutto su un altro piano; quello che abbiamo sempre azzardato nella letteratura, quello che da sempre abbiamo desiderato di vedere con i nostri occhi, è finalmente tangibile. L’idea è divenuta materia e con essa quelli che erano esclusivi sogni di menti fuori controllo sono divenute realtà solide – almeno al Salk Institute.
Oggi abbiamo assistito alla pubblicazione di un primo tentativo di clonazione umana. Riuscito o non riuscito, a noi poco importa. Dal 2030, invece, sapremo con certezza se i finanziamenti di Elon Musk e soci avranno trovato un modo per portare l’uomo su Marte. Riusciremo finalmente ad interagire con gli alieni? Sono convinto che quel giorno, alla domanda «c’è vita su Marte?» saremo in molti sperare che nessun telefono squillante ci riporti con i piedi sulla nostra terra.