Circa un mese fa cominciava il lockdown che metteva una parte del paese in isolamento nelle proprie case, mentre un’altra parte lì fuori continuava a combattere contro un nuovo tipo di virus. Ci scoprivamo più fragili e impotenti, e questo si ripercuoteva in modo naturale sulla nostra capacità di concentrazione: i dati raccolti nell’ultimo mese hanno confermato un calo di attenzione che ha inciso su cose come la lettura di libri o l’ascolto di musica in streaming. A poco a poco però capitava di ritrovare dei libri, quelli lasciati in sospeso o da rileggere, quelli ritrovati a casa, quelli che avevamo dimenticato, e improvvisamente erano riemersi alla memoria. E così qui sotto abbiamo raccolto un po’ di letture ritrovate.
PS – Non esiste una collezione di libri perfetta, e non esiste una libreria perfetta che non abbia fame di espandersi. E anche questa lista si espande virtualmente verso le vostre letture, verso i libri che avete ritrovato nell’ultimo mese.
Omero – Iliade
di Paolo Bergamaschi
Per anni, fra scuole, università e mondo della cultura, un mantra ha serpeggiato ripetendo costantemente quanto facciano bene i classici. Queste opere risalenti a più di duemila anni fa, che sembra abbiano il potere di rendere genericamente migliori le persone, anche solo per osmosi, avendole, magari esposte in bella vista nelle nostre librerie. Come se un libro, qualsiasi esso sia, avesse questa dote intrinseca da amuleto magico, che appeso al collo difenda dagli agenti del male. Questa retorica ha finito per ammantare di un’aura divina i classici, rischiando di trasformali da una parte in feticci dogmatici, e dall’altra in elementi repulsivi cui mai ci avvicineremmo, per disgusto o per timore reverenziale. Il risultato è che poi questi testi non vengono nemmeno letti, ed è un vero peccato, perché sono effettivamente testimonianze, spesso altissime, di umanità. Perciò il libro che propongo per l’isolamento (per isolarsi, o per sentirsi meno soli) è l’Iliade di Omero. Chissà che magari uno perdendosi in quelle pagine, oltre al valore dell’opera, non trovi anche un senso al momento che stiamo vivendo.
Il diario di Etty Hillesum / Banana Yoshimoto – Kitchen
di Marina Bisogno
Una mappa letteraria per fotografare il mio primo mese di quarantena. Non è facile come compito: se ragiono, dal mucchio delle letture saltano fuori Il diario di Etty Hillesum (Adelphi editore) e Kitchen di Banana Yoshimoto (Feltrinelli). Cosa hanno in comune? Apparentemente niente, ma, a ben vedere, la risolutezza e la profondità di Etty sono affini a quelle di Mikage, il personaggio femminile e voce narrante di Kitchen, il celebre racconto della scrittrice giapponese, tanto di moda negli anni Novanta. Etty si interroga sulla vita, sul tempo, sulla morte, sull’amore: non ha neanche trent’anni quando la follia nazista minaccia lei e tutti gli ebrei di morte. Eppure, Etty conserva un’indole sognante, mistica. Non sono diversi da lei i protagonisti della Yoshimoto, Mikage su tutti. Nelle riflessioni intimiste, a volte ironiche, di Etty e della Yoshimoto ho ritrovato ispirazione, serenità. Ho letto entrambi i libri anni fa, in periodi diversi. Mi sono accorta che mi fanno luce e ho fatto loro spazio.
Olga Tokarczuk – I vagabondi
di Francesco Chianese
“Questa vita non faceva per me. Evidentemente mi mancava quel gene che fa sì che quando ti trattieni a lungo in un certo luogo ci metti le radici.”
Ho cominciato ad amare Olga Tokarczuk quando ho letto questa frase e mi sono sentito meno solo. Perciò tra i libri che sto leggendo in queste lunghe settimane, quello che più rappresenta la mia reclusione solitaria e i miei sbalzi d’umore è il suo I vagabondi. Non è un libro facile da approcciare, perché non da punti di riferimento di nessun tipo, o forse, proprio per questo, dovrebbe essere il libro più facile da approcciare. Lo stesso titolo Bieguni è impossibile da rendere in altre lingue, suggerisce un polo di una sfera o un magnete ma anche una direzione di movimento (da quello che ho capito). In questo periodo leggo libri che ricadono in due categorie: quelli che mi portano in giro per Torino, nei posti che avrei frequentato in modo più assiduo che associo alla città a cui ho imparato a volere bene, e quelli che mi portano in giro per posti totalmente alieni, in alcuni casi perfino inesistenti. Alla prima tipologia appartengono Natalia Ginzburg e Marta Barone. Alla seconda, decisamente Tokarczuk. Il suo stile di scrittura rapsodico e scomposto ha la forza centrifuga della scrittura di Melville e tende al disordine e alle associazioni spontanee e casuali secondo le dinamiche della combinatoria professata da Calvino: non ha un vero inizio né una vera fine, può essere aperto in qualsiasi punto e letto a partire da nuove prospettive. Si presta ai quindici minuti di fila fuori al supermercato, al pomeriggio che scorre lento sul balcone e al quel momento della sera che ci coglie a letto e ci fa venire voglia di leggere poche pagine prima di dormire. È un ipertesto che non ha mai desiderato di esserlo, costruito come un rizoma, una struttura arborea peculiare perché le radici si distribuiscono orizzontalmente in modo non gerarchico, libere di espandersi in tutte le direzioni. Un libro che piuttosto che essere stato scritto, sembra essere cresciuto spontaneamente, libero e indisciplinato. Non è una sorpresa che sul New Yorker Tokarczuk abbia scritto che associa alla quarantena una sensazione simile al sollievo. Questo libro è stato scritto da una persona che dovunque si trovi è a suo agio.
I racconti di Oliver Sacks
di Simona Ciniglio
La storia dell’umanità in fondo assomiglia alla sinistra degli ultimi trent’anni: un potenziale dubbio sperperato con certezza in esperimenti di fissione e inutili individualismi. Lo capisci dalla coltre di angosciosa elettricità che domina la pandemia, una specie di enorme campo di forze disordinate, un mega party entropico e disturbante. È evidente che se ci organizzassimo…(risata da sit-com) – è evidente non ci organizzeremo mai. Cosa c’entra questo con la lettura? C’entra moltissimo: almeno io, con questo ronzio assordante di fondo non riesco a concentrarmi. Assorbo e incanalo irrequietezza. L’unico antidoto pare essere la scienza, la natura perfetta e spiegata con calma e autorevolezza. Per l’insonnia, provateci, non c’è niente di meglio di un documentario: le meraviglie degli abissi, cacciatori della savana, il magico mondo delle piante. Così se una voce in letteratura c’è, in grado di staccare la presa al virus, è quella limpida e certa di Oliver Sacks: scienza e il resto scompare (cit). Siamo una specie curiosa, funzioniamo in modi spesso poetici, aggregati di materia stellare tra caos e speranza. I racconti di Oliver Sacks – da Musicofilia a Zio Tungsteno, fino al più recente Ogni cosa al suo posto – scoperchiano il mistero di formule e simboli, neuroscienze e letteratura trovano nel suo umanesimo brillante una lingua franca, l’armistizio ideale in questi tempi di guerriglia invisibile e logorante.
Paul Auster – Nel paese delle ultime cose / Haruki Murakami – Gli assalti alle panetterie / Giancarlo Consonni – Filovia
di Ilaria Del Boca
In questo periodo alterno giornate in cui divoro libri, riviste e quotidiani a momenti in cui vedo le pagine come una massa informe di parole collocate una dopo l’altra senza una logica precisa. Per superare questo blocco una delle azioni che mi fa stare meglio è pescare dalla libreria volumi che associo ai viaggi. Il primo titolo che vi consiglio è Nel paese delle ultime cose, uno dei grandi capolavori di Paul Auster. Nel mondo raccontato dallo scrittore americano le persone e le cose sono a rischio di estinzione: ogni giorno un pezzetto scompare lasciando un vuoto incolmabile. Ho letto questo romanzo distopico dieci anni fa d’estate su un treno regionale diretto al mare e riaprirlo oggi a casa sul divano è strano e non più così distopico. Il secondo è Gli assalti alle panetterie scritto da Murakami Haruki e illustrato da Igort nella traduzione italiana per Einaudi. La storia è quella di alcuni giovani che decidono di rapinare una panetteria non per i soldi, ma perché affamati di pane. Vedere i supermercati svuotati di beni di prima necessità mi ha indotto a tornare tra queste pagine. Infine Filovia, una raccolta di poesie di Giancarlo Consonni, un viaggio attraverso Milano sui mezzi pubblici che riporta immediatamente alla normalità e ai piccoli gesti che per molti fino a un mese fa erano parte del quotidiano. Qui sono descritti con semplicità e realismo volti, suoni e rumori spesso violenti che mancano proprio a tutti, anche ai pendolari più stressati.
Raymond Carver – Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
di Sara Deon
Rileggere Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver nel bel mezzo di una pandemia è un’esperienza strana. Se una telecamera satellitare potesse riprendere un condominio come quello in cui viviamo, o quello dei nostri vicini, magari anche con le finestre aperte in questi giorni di calura primaverile, quello che la lente registrerebbe potrebbe risultare molto simile alle istantanee di vita dei suoi racconti. La quarantena ha costretto tutti a una convivenza forzata: chi si è trovato in solitudine a convivere con se stesso, chi dopo tempo si è ritrovato a dividere forzatamente spazi che, con l’estendersi dell’isolamento, sembrano farsi sempre più stretti. La vita che ci vede protagonisti o comparse da oltre un mese ci sembra strascicata, a volte insignificante. E nessuno scrittore americano è un maestro nel descrivere fatti apparentemente insignificanti come Raymond Carver. E lo fa con uno stile che ne rispecchia il principio artistico: si può essere inesatti, sono ammesse le sbavature, ci rivela che le difficoltà nell’esprimere gli stati d’animo sono una modalità espressiva a loro modo. Ci ricorda che alcune situazioni sono difficili da descrivere a parole, soprattutto quando possono sembrarci un trauma tanto individuale che collettivo. È una lettura immersiva che può rapirvi per un pomeriggio e che magari non vi darà esattamente le risposte che cercate ma che, alla fine, vi farà sembrare la stanza un più spaziosa, ci farà fluire dentro un po’ di luce.
Guido Morselli – Dissipatio H.G.
di Veronica Ganassi
“No, non sono comicamente Alceste le Misanthrope, sono, a intervalli, fobantropo, ho paura dell’uomo, come dei topi e delle zanzare, per il danno e il fastidio di cui è produttore inesausto. Questa non è l’unica, è una delle ragioni serie per cui tento di avere la solitudine; una solitudine (nei modesti limiti del possibile) genuina, ossia durevole e a ampio raggio. Adesso che ‘loro’ si fanno desiderare, o cercare se non altro, comincio forse a misurare la loro importanza.”
Ho sempre pensato che di fronte a eventi che turbano la nostra tranquillità si registrino solitamente due tipi diversi di reazioni: c’è chi agisce per contrasto, facendo di tutto per sentirsi in controllo e raddrizzare il timone, e chi invece ritrova la calma scegliendo di assecondare il proprio stato d’animo. Rientrando io, il più delle volte, nella seconda categoria (cosa che mi porta ad esempio ad ascoltare Elliott Smith e non i Weezer quando sono giù di morale) in questi giorni ho cercato rifugio nei lati più oscuri della mia libreria. L’ho trovato rileggendo Dissipatio H.G., romanzo postumo di Guido Morselli che narra la (dis)avventura di un uomo che a seguito di un tentativo fallito di suicidio si risveglia solo sulla faccia della terra. È una breve (154 pagine) ma intensa riflessione sull’assenza, sul tempo che perde improvvisamente ogni valore, sulla solitudine e sul senso di inadeguatezza che a volte, inevitabilmente, ci pervade. Un libro colto e citazionistico che insegna, tra le altre cose, a rifuggire dalle semplificazioni e a sfruttare l’imprevisto come un’opportunità per indagare le parti più inesplorate della nostra anima.
Georgi Gospodinov – Fisica della malinconia
di Federica Guglietta
“Per fortuna le cose che mi interessano non hanno peso. Il passato, la malinconia e la letteratura – ecco le tre balene senza peso che mi interessano.”
Contare i giorni non serve a niente. Rifugiarsi nella letteratura sì. Recuperare Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov in quarantena mi ha messo addosso la voglia in infilarmi in un “corridoio laterale” e immedesimarmi in altre vite, altre storie, andare via. Tornare al passato, rivedere persone, cose, situazioni lontane da un altro punto di vista. Fuggire, forse. Cercare qualcosa o qualcuno. Quel Georgi voce e protagonista insieme al lettore di mille storie vicine e lontane è una persona fortemente empatica. Per la precisione, è affetto da una forma di “empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica”. Allora dài, entriamo nel labirinto insieme al Minotauro che altri non è se non un bambino abbandonato con le gambette infantili e la testa di toro; a Georgi bambino nei suoi interminabili pomeriggi passati nell’appartamento della sua infanzia: un seminterrato da cui vedere il mondo fuori attraverso le gambe passano fuori dalla finestra); a nonno G. quand’era ancora più piccolo di Georgi ed è stato abbandonato al mulino e poi recuperato; alla bisnonna Kalà, a quei discorsi fatti insieme a lei sulla paura della morte e a tante altre storie. Ci serve l’empatia, i corridoi laterali in cui sgattaiolare, alla fine ci serve anche un po’ di malinconia e le pagine di Georgi Gospodinov sono qui per questo.
Andrew Sean Greer – Less
di Mattia Insolia
Less, di Andrew Sean Greer, l’ho letto due volte. In entrambi i casi attraversavo un periodo difficile e in entrambi i casi, girata l’ultima pagina, ho sentito una morsa allo stomaco. Salinger ha detto che i libri che lo lasciavano senza fiato erano quelli che una volta finiti “vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle per poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Solo leggendo Less ho capito in modo profondo cosa intendesse. Greer ha creato un personaggio che è un gigante della letteratura, ed è uno scrittore fallito sulla soglia dei cinquant’anni. Quando Arthur riceve l’invito al matrimonio del suo ex più importante, decide di intraprendere un viaggio per il mondo in cerca di ispirazione per il nuovo libro e in cerca di sé. Vincitore del Pulitzer 2018, Less è un romanzo ironico, luminoso e capace di scandagliare in profondità l’animo umano. È la narrazione impudica di speranze e desideri nudi, è l’indagine tragicomica sull’essenza più generosa dell’amore, è sorvolare con leggerezza un’intera esistenza, unica e universale.
Gesualdo Bufalino – Diceria dell’untore
di Fabio Mastroserio
“Lo ascoltavo appena. Marta, qualcuno ancora mi diceva all’orecchio, Marta. E sul cuscino quel dispiegato pulviscolo di fiordi e licheni, quella galassia di meduse morte, ripeteva Marta, si chiamava Marta.”
Estate del 1946. Un giovane reduce trascorre i propri giorni nel sanatorio della Rocca sulle alture di Palermo dove – insieme agli altri malati di tubercolosi – “l’attesa della morte è una noia come un’altra”. Nel calore mediterraneo di una Sicilia allo stesso tempo lussureggiante e mefitica, il protagonista ci accompagna nel racconto dei suoi compagni di sventura verso i quali, unico sopravvissuto, sente di dover quasi espiare l’inaspettato tradimento. Sono ritratti straordinari, ricchi di umanità e di dolcezza, di pasta di mandorle resa amara dall’ineluttabilità degli addii. Su tutti emerge la figura di Marta, personaggio sfuggente, misterioso, affascinante – “la puttana, la spia, l’aguzzina” – che, fragile, ne riempirà sogni, desideri, notti e un ricordo destinato a durare per l’intera vita. Iniziato nel 1950 per essere ripreso vent’anni dopo e ultimato solo nel 1981, Diceria dell’untore è come un diario prezioso in cui la lingua – quasi come per un miracolo – si fa insieme barocca ed essenziale come un frutto succoso ricondotto alla verità e fertilità del suo nocciolo.
Le poesie di Amelia Rosselli
di Martina Neglia
Il mio rapporto con la poesia è stato quasi del tutto inesistente fino al 2020 per poi diventare caldo cantuccio in cui rifugiarmi in questi tempi di chiusura e isolamento. Sono state tante le iniziative portate avanti dall’inizio del lockdown che invogliavano alla lettura a casa, a consumare più pagine con la scusa di un fantomatico tempo in più; eppure la spinta propositiva combatteva con una mente incapace di immergersi con serenità nelle narrazioni. Le poesie così sono diventate il mio rifugio, nella precisione di parole allineate – spesso così poche ma spesso in grado di spalancare alla bellezza un’anima fiaccata. Ho letto più di una raccolta, saltando dalla Romania agli Stati Uniti, e poi al Vietnam e poi di nuovo di ritorno in Italia. Qui mi ha ripreso Amelia Rosselli, prima col suo poemetto La libellula e la libertà che prende respiro tra i suoi versi; poi con le sue Variazioni, in cui la immagino lì, con tante lame in mano pronta a scavare. “Rosselli sente e lascia agire la lingua, letteralmente, in quanto corpo, organismo biologico […]” – diceva Mengaldo.
Georges Perec – Specie di spazi
di Giovanna Taverni
Un libro piccolissimo, una breve esplorazione dello spazio, dal microscopio della pagina bianca al nostro letto e alla camera da letto; spazio che si allarga al quartiere, alla città, fino ai confini arbitrari degli stati e al mondo intero. Georges Perec sembra suggerire che lo spazio comincia tra le quattro mura della camera dove di solito riposiamo, ma la sua ampiezza non finisce lì, comprende l’universo – lo divora. Così quello di Perec potrebbe essere un banalissimo invito a estenderci oltre lo spazio che stiamo sperimentando, riscoprire le incredibili connessioni tra un essere umano e l’altro, guardare oltre e anche verso gli spazi che non ci riguardano. Ora che metà della popolazione mondiale è costretta dentro un’area breve e delimitata, dalle nostre stanze e dal nostro circondario possiamo guardare l’ampiezza del mondo, affondare dentro quelle zone d’ombra che ci trascinavamo dietro e sembrava avessimo dimenticato.