Ho letto per la prima volta Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci nell’estate del 1994. Avevo undici anni, la professoressa di italiano ci aveva consigliato dei libri da leggere e avevo terminato da poco Il paese del vento di Grazia Deledda, una novella di 135 pagine che l’autrice sarda aveva dedicato agli scompigli adolescenziali di una ragazza benestante, cresciuta in campagna e soggiogata da personaggi maschili ingombranti e personaggi femminili troppo distanti da lei. Nelle lettere mi sono imbattuta mentre cercavo altre storie per combattere la noia. Era un pomeriggio d’agosto e avevo esaurito il tempo massimo da trascorrere davanti alla televisione. Ho pescato la copertina rigida color cammello senza fascetta tra i romanzi di De Crescenzo, Morante e Bevilacqua. Il libro sta ancora là dove ci siamo trovati: pagine smangiate, vissute, di un’edizione Rizzoli del 1980. Lessi, senza sapere chi fosse Oriana Fallaci. Ignoravo anche che ero troppo acerba per un testo che il Belpaese non ha interiorizzato, preferendo, ai tempi, confinarlo in una stagione politica e bollarlo come manifesto abortista o antiabortista, a seconda dello sguardo. Invece, è un libro immenso, che coltiva e sostiene il dubbio rispetto a ciò che tratta: la maternità, il rapporto tra la donna e il suo corpo (un rapporto su cui chiunque, la Chiesa, lo Stato, in primis, hanno voluto intervenire), la donna nella società, l’amore. La Fallaci con la sua scrittura inequivocabile e ben assemblata entra a gamba tesa nel dibattito sull’aborto che ha infiammato l’Italia negli anni Settanta, senza suggerire soluzioni e disvelando, di riflesso, la finitezza dei ragionamenti di quanti si dicono favorevoli o sfavorevoli all’interruzione volontaria di una gravidanza.
Il romanzo è dirompente: si rivolge a tutte le donne, le aggancia al primo rigo e non le molla fino al punto finale. Della protagonista non conosciamo quasi nulla che la caratterizzi fisicamente. Sappiamo che lavora, che è economicamente indipendente, vive da sola, ha una relazione altalenante con un uomo e resta incinta. Le omissioni sono studiate: Fallaci punta sulla potenza della voce narrante, fa in modo che scombini l’emotività del lettore, non infarcisce un personaggio canonico.
La donna parla al bambino che è sicura di aspettare, ancor prima dell’accertamento medico: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata”. È un incipit celeberrimo, quasi prodigioso, che mette in chiaro l’atmosfera del romanzo. Il conflitto è un sentimento chiave della storia, scandita con i tu che la donna rivolge al nascituro. Alla notizia della gravidanza, lei non esulta, non canta di gioia: va in crisi, si chiede se il bambino – verso il quale non esercita possesso – abbia voglia di venire al mondo. Pagina dopo pagina, gli rivela le leggi non scritte che regolano le relazioni tra gli esseri umani, capaci di farsi del bene ma anche tanto, troppo male. Nessuna rassicurazione di matrice religiosa per il nascituro, e attraverso di lui, per nessun lettore: venire al mondo non è una passeggiata, c’è da combattere, occorrono coraggio, benevolenza con i deboli, spietatezza con gli arroganti. La protagonista consegna al figlio la sua visione dell’umano, ammantata di dolore ma pure di perseveranza e determinazione. Non nega la bellezza di esistere, anzi sottolinea come lo sia ancor di più nei panni di una donna, nonostante le difficoltà che questo comporta dalla notte dei tempi.
Lettera ad un bambino mai nato è stato pubblicato per la prima volta nel 1975 (la legge sull’aborto risale al 1978) e ad oggi ha venduto più di tre milioni di copie nel mondo: numeri impressionanti per un autore italiano e che collocano questo romanzo, insieme ad Un uomo, tra i capolavori della letteratura moderna (ne scrivevamo qui). A chi le ha chiesto se la donna del libro fosse lei, Oriana Fallaci ha risposto: “Non sono io la donna del libro. Tutt’al più le assomiglio, come può assomigliarle qualsiasi donna del nostro tempo che vive sola e che lavora e che pensa”. L’idea di scrivere questa storia gliela dà il direttore dell’Europeo, Tommaso Giglio, che commissiona ad Oriana un’inchiesta sull’aborto. Le concede quattro mesi di tempo, lasciandole carta bianca sui contenuti. Lei ne impiega sei di mesi, ma anziché presentare un articolo, consegna un romanzo. Il direttore si infuria, per qualche tempo non le parla. Il libro non viene fuori dal nulla. La Fallaci aveva chiuso in un cassetto, qualche anno prima, dei fogli pieni del dolore per un’esperienza personale. Si tratta di bozze sulle quali non aveva più ragionato. La richiesta del giornale le dà l’input per gettarsi a capofitto in quel nucleo di frasi, le ripulisce dai riferimenti personali e il risultato è stupefacente, un libro palpitante, tutt’oggi valido.