Il vento spazza via la polvere, ma non la elimina. Quei minuscoli frammenti, seppure spazzati via, lontani tra loro, resistono nonostante tutto. E si ritroveranno.
Il dramma dell’esilio come tema universale. L’amicizia e l’amore. La forza dei legami che sono ancore di salvezza. E la terra che brucia sotto i loro piedi, senza poter fare niente per salvarla. Una terra dove sono nati e cresciuti, che vive uno dei peggiori momenti della sua storia. La Cuba che Leonardo Padura ha scelto di raccontare è un corpo malato che soffre di un male incurabile, ma ha la forza di un magnete a cui tutti cedono. I protagonisti che costellano la vicenda sono giovani pieni di sogni, figli del regime cubano, amici prima di tutto. Il 21 gennaio 1990, il giorno in cui si sarebbe dovuto celebrare il trentesimo compleanno di Clara a casa sua e di Darío a Fontanar, da sempre luogo di raduno per i personaggi del romanzo, sarà da tutti ricordato come la quiete prima della tempesta. Il giorno che sancisce la fine delle illusioni. L’inizio dell’esodo di massa.
Leonardo Padura, giornalista e scrittore cubano, è noto soprattutto per la serie di romanzi polizieschi che hanno per protagonista il detective Mario Conde. Nel 2015 è stato insignito del Premio Principessa delle Austurie per la Letteratura. Come polvere nel vento (Bompiani, 2022, traduzione di Bruno Arpaia) ha ottenuto la Carlos Fuentes Medal 2020 e il Prix Transfuge 2021. Ho avuto il piacere di intervistare l’autore a due passi da Piazza del Popolo, poco prima della presentazione che ha avuto luogo a Roma, presso la libreria Eli. Si ringrazia per la traduzione Federica Cinque.
Dopo aver raggiunto il successo con la serie di romanzi di Mario Conde, ha deciso di raccontare attraverso un romanzo di formazione temi importanti come l’amicizia, la diaspora cubana, il valore del passato. È un romanzo più intimo e sofferto, qual è stato il motore che l’ha spinta a scriverlo e a discostarsi dal genere su cui ha scritto di solito?
Vent’anni fa ho pubblicato Il romanzo della mia vita, che ovviamente non è la storia della mia vita [n.d.r., ride], bensì quella del poeta romantico cubano José María Heredia che sperimentò l’esperienza dell’esilio. Quel romanzo raccontava il dramma dell’espatrio, un tema che mi perseguita da allora e che ho scelto di spostare verso il mio punto di vista, cioè raccontando l’esodo della mia generazione. Ho accumulato nel tempo esperienze, storie di persone che ho sentito parlare, le ho raccolte non solo con l’idea di scrivere, ma soprattutto con l’obiettivo di arricchirmi, di dare un senso alle loro esperienze. Come hai detto bene, Come polvere nel vento è un romanzo sull’amore e sull’amicizia. I drammi dei personaggi in questo libro hanno una prospettiva individuale, è uno sguardo interiore rivolto sia a coloro che restano sia a coloro che sono costretti ad andarsene, instaurando relazioni imprevedibili che si possono decifrare solo in una dimensione collettiva.
I personaggi di questo romanzo sono figli del regime cubano, hanno studiato e sono cresciuti lì con gli ideali che contraddistinguono Cuba nel mondo e nella storia. Anche lei è nato, ha vissuto e continua a scrivere a Cuba. Che significa oggi essere un intellettuale a Cuba? Le sue opere vengono prima pubblicate all’estero, il rischio di censura è sempre presente. Quale vantaggio, a fronte di molti rischi, comporta la sua posizione?
È una necessità. E io mi assumo tutte le conseguenze che ne derivano. Ho una visione viscerale della realtà cubana che cerco di esprimere attraverso i miei libri. Voglio raccontare la verità, anche a costo di apparire non politicamente corretto. Una delle conseguenze è che i miei libri sono poco promossi, pubblicati tardi a Cuba, due settimane fa è uscito un servizio sulla televisione cubana, dopo cinque o sei anni che non si parlava di me in tv. Questo è il prezzo che pago, ma lo faccio per una responsabilità civile che sento di dover rispettare, un dovere morale che ho nei confronti dei lettori e di me stesso.
Nel 1990 Cuba fu colpita da una delle peggiori crisi economiche mai vissute. Castro annunciò severe restrizioni nel consumo di combustibili e di altri prodotti essenziali. Fu introdotta la “libreta de abastecimiento” che permetteva l’acquisto razionato di cibo, i salari furono notevolmente ridotti, senza considerare le frequenti interruzioni di luce e acqua. Nel 1994 una clamorosa protesta contro il governo di Castro condusse oltre trentamila cubani ad abbandonare l’isola per cercare fortuna sulle coste americane. Cosa ricorda di quel periodo e perché ha deciso che quel ricordo dovesse diventare materia narrativa?
Fu un brutto periodo. Ci mancava tutto, anche l’aria da respirare. In un momento di tale incertezza era ovvio che si verificasse un’ondata di migrazione soprattutto da parte della mia generazione. I personaggi sono tutti professionisti (architetti, ingegneri, ecc.), tutte persone che hanno studiato e che all’improvviso si sono trovati con un futuro incerto davanti a sé. La situazione sfuggì di mano, la fuga si rivelò una soluzione di massa. Anche oggi il fenomeno della migrazione da Cuba non si è fermato, anche se non è paragonabile a quanto avveniva in quegli anni. Un mio amico che lavora in aeroporto mi ha detto che i voli da Cuba al Nicaragua (un paese che non richiede il visto per entrare) hanno registrato uno spostamento di circa un milione di persone, il 10% della popolazione cubana, tutti tra i venti e trentacinque anni che vendono tutto quello che possiedono per affrontare il viaggio.
Ha scritto un romanzo sull’esilio, sul dolore di lasciare il proprio Paese, di essere strappati dalla propria terra, dal passato. Da un lato per i personaggi del romanzo è un modo per ritrovare sé stessi e conoscere il mondo, dall’altro soffrono la condizione dello sradicamento. L’esilio è stato raccontato da molti autori, penso a Brodskij, come una condizione tragica e oggi assistiamo ancora all’esodo dall’Ucraina. Cosa rappresenta per lei l’esilio e crede che quella dell’esule sia un po’ una condizione esistenziale dell’uomo a cui non può sfuggire e che ciclicamente torna?
Credo che l’esilio sia determinato da fattori economici, politici, sociali, ma è sempre una soluzione drammatica, perché implica una rinuncia. L’idea dello sradicamento è difficile da affrontare: non a caso spesso gli esiliati creano dei ghetti in cui cercano di comunicare nella lingua d’origine. Siamo tutti accomunati da un senso d’appartenenza che ci accompagna e ci perseguita per tutta la vita, rinunciare a quest’appartenenza è contro natura.
I suoi personaggi si trovano all’improvviso senza casa né terra, senza certezze. Soli, sospesi in un indefinito margine che ognuno soffre ma che non vuole abbandonare. Molti scrittori, e in particolare scrittrici, hanno posto la loro attenzione negli ultimi anni sull’idea del margine. Elena Ferrante ha parlato di perdita del margine come spersonalizzazione dell’individuo, Zadie Smith ha spiegato cosa significhi abitare il margine in una prospettiva sociale. Per lei cos’è il margine? Cosa significare abitare il margine oggi?
C’è una differenza importante in spagnolo tra essere emarginato ed essere al margine. Il primo termine descrive una persona che vive fuori dai margini etici, spesso questo status dipende da una situazione economica. Essere emarginati invece dipende da una condizione sociale e politica. Ha anche un’altra componente: alcune volte stare al margine significa ribellarsi a delle condizioni imposte dalla società, per ragioni religiose o sessuali. Sono convinto che spesso si confondano le cause con i fenomeni, noi dobbiamo lottare contro le cause, non contro i fenomeni. Dal mio punto di vista non è importante il linguaggio inclusivo, ma includere le persone, specialmente le donne. Il linguaggio ha un suo peso, certo, ma penso che sia molto più importante oggi che una donna guadagni quanto un uomo. Contano i fatti più delle parole.
E adesso a quali progetti sta lavorando di prossima pubblicazione?
Tornerà Mario Conde con una nuova indagine e un nuovo romanzo. E sarà avvincente.