Quando, lo scorso 13 ottobre, è stata data notizia dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, il dibattito, tuttora non sopito, si è rapidamente diffuso sui social network, animato e ben nutrito dalla stampa, dall’incessante chiacchiericcio sui canali radiofonici e televisivi. Due distinte fazioni continuano a fronteggiarsi sull’argomento: da una parte i detrattori, i quali ritengono che il prestigioso riconoscimento debba essere conferito solo a chi delle lettere ha fatto un mestiere e una ragione di vita; dall’altra i sostenitori del songwriter, che da sempre asseriscono come la qualità poetica del cantautore sia colma di meriti che, per loro entità, esulano dai territori propri della musica, acquisendo pieno valore letterario.
Nel polverone mediatico sollevato dall’acceso confronto tra queste due posizioni, altre voci, più sommesse e smarrite, si levano: si tratta di coloro che, alzando per un attimo lo sguardo dalla pagina del quotidiano del giorno, si sono chiesti: – Ma allora Cohen?–
Già, perché Leonard Cohen, sin dagli anni dell’università, si dedicò alla sperimentazione letteraria, pubblicando nel 1956 la prima raccolta poetica, Let Us Compare Mythologies, a cui farà seguito, nel 1961, una seconda silloge, The Spice Box of Earth, opera che gli guadagna l’attenzione di pubblico e critica (Robert Weaver si farà sfuggire l’entusiastico commento secondo cui il ventisettenne è probabilmente “il miglior giovane poeta del Canada inglese contemporaneo”). Durante il periodo di “ritiro” sull’isoletta greca di Hydra – sono gli anni importanti della convivenza con una delle sue maggiori muse, Marianne Ihlen, immortalata per sempre nei versi di una delle sue canzoni più note, So Long, Marianne – darà inoltre alla luce i suoi primi due romanzi: l’autobiografico The Favourite Game e Beautiful Losers, opere il cui valore verrà riconosciuto solo una volta che Cohen si sarà imposto come cantautore.
Lo stesso amore per una lingua ricercata, la stessa consapevolezza metrica, l’interesse per tematiche quali il rapporto non pacificato con la religione, gli amori perduti, il ripiegamento dell’individuo su se stesso, animeranno anche la proficua carriera musicale del canadese procurandogli la fama di una figura ibrida, sospesa tra il mondo letterario e quello cantautorale, graziato da uno straordinario talento tanto in un campo che nell’altro. Le sue prime ballate, uscite in quel rivoluzionario ’68 durante il quale i songwriter assumevano su di sè il ruolo di portavoce di una generazione dissenziente, con in prima fila proprio Bob Dylan e Joan Baez, non ottennero inizialmente il successo sperato. Una voce ruvida, “simile alla lama di un rasoio”, cantava, a tratti quasi recitava, parole frutto di un attento labor limae, riflesso di un animo inquieto, in grando di rielaborare suggestioni provenienti dal proprio background religioso e culturale in maniera originalissima, in cui il generale viene riportato al particolare grazie a commoventi e appropriate sineddochi, in cui la fragilità umana è tema preponderante e magistralmente declinato. Il potere evocativo dei testi si sposava con un intuito compositivo che andava a frugare nel country folk americano e nel repertorio europeo degli chansonnier francesi: si tratta di brani “montati” su strutture deliberatamente semplici così com’è scarna ed essenziale la veste che indossa la prima parte della produzione coheniana.
Gli album capolavoro che hanno costellato la carriera di Cohen si sono poi succeduti numerosi: dal suo primo lavoro in studio, Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968) sino al magistrale Songs of Love and Hate (Columbia, 1973), da New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973) fino a quel Various Positions del 1984 da cui la preziosa “canzone – salmo” Hallelujah, divenuta uno dei tanti brani – simbolo della sua produzione e la bellissima Dance Me To The End of Love. Un percorso lungo una vita che ha influenzato generazioni di musicisti di fama internazionale, da Nick Cave al “nostro” Fabrizio De Andrè, che è stato oggetto di studio, di infiniti omaggi e di imitazione. Bono Vox, parlando della rilevanza di Leonard Cohen nell’attuale mondo musicale affermerà: “la maggior parte di noi si accontenterebbe di fare ciò che lui scarta” (nel documentario del 2005 I’m Your Man, diretto da Lian Lunson).
La ragione di questa introduzione un po’ prolissa risiede nel fatto che, quando si parla di uno dei padri del folk internazionale e lo si fa in occasione dell’uscita di un suo nuovo lavoro, non si può prescindere dalla storia che ha alle spalle. Soprattutto quando essa per molti versi scorre parallelamaente, s’interseca e sovrappone a quella del popular degli ultimi quarantacinque anni: il che, se vogliamo, rende più delicato – e in parte anche ingrato – l’approccio di chi, necessariamente, si deve accostare all’ultimissima sua produzione mettendo da parte l’ammirazione e affilando gli strumenti critici.
Come molti sanno, il 21 ottobre, a un mese esatto dal suo ottanduesimo compleanno, Leonard Cohen è tornato a far parlare di sè con un nuovo disco in studio, dal titolo You Want It Darker, anticipato da un singolo che è anche title track. Non a caso scelta come incipit dell’album, il brano – epico e dalle tinte cupe – suona, in molti incisi, come un testamento spirituale e nei modi ricorda da vicino la produzione dell’ultimo Cash. Il canto, in realtà quasi un recitativo, è in primo piano con la voce di Cohen che stacca e si staglia su uno sfondo di soffuse voci maschili (si tratta del Shaar Hashomayim Synagogue Choir di Montreal). Treaty è secondo amarissimo pezzo che sembra suggerire una riflessione sulla capacità dei legami di evolvere, loro malgrado, nell’impenetrabilità di due mondi vicini ma non per questo comunicanti fra loro. Il testo recita: “We sold ourselves for love but now we’re free/I’m sorry for the ghost I made you be/Only one of us was real – and that was me.“, e ancora : “I wish there was a treaty we could sign/I do not care who takes the bloody hill/I’m angry and I’m tired all the time/I wish there was a treaty/I wish there was a treaty/Between your love and mine“. Essa riapparirà, epifania evocata da un diverso e più fiorito arrangiamento di archi a sottolinearne la drammaticità, come ultima traccia dell’album.
Una malinconica e sussurrata On The Level, firmata dalla vocalist e compositrice Sharon Robinson, storica collaboratrice di Cohen e coautrice della musiche di Ten New Songs (e tornano qui, infatti, le atmosfere di allora), riflette sulla senilità e sull’irrimediabile distanza che la separa dai passionali slanci della giovinezza, mentre le morbide timbriche femminili delle background vocals le regalano il sapore di un gospel.
Leaving The Table è ballata in cui il tocco compositivo di Cohen è, seppure un poco offuscato dall’età, subito riconoscibile in quell’andamento danzante che ha animato tante delle sue vecchie glorie e che, rispolverato all’uopo, funziona ancora. Altrove invece, lì ove le musiche non sono firmate dal cantautore, questo quattordicesimo lavoro in studio risente di una “doppia personalità”, una mancata coerenza che dà un po’ le vertigini se lo analizziamo alla luce del fatto che colui che stiamo ascoltando è l’uomo che firmò l’immensa Famous Blue Raincoat. È il caso di brani come Traveling light, un sincopato recitativo, dove la povertà strutturale e compositiva è mascherata da un arrangiamento che calza al pezzo come un vestito corto, rendendo drammaticamente vistosa la differenza tra il gusto tutto coheniano per la melodia – quella sintassi schiettamente semplice ma comunque funzionale, quella sognante malinconia che ne costituisce uno dei tratti stilistici più immediatamente riconoscibili – e i lavori a quattro mani (in questo caso a sei: firmano la musica Patrick Leonard e Adam Cohen). Aggiusta il tiro, ma forse la magia si è un po’ guastata, una monumentale It Seemed The Better Way, dove nuovamente il pensiero torna ad American Recordings di Cash: le parole di Cohen, grevi ed enigmatiche, si incidono nella mente come scalpello su pietra. La “golden tongue” canadese non ha perso la propria capacità evocativa, neppure col sopraggiungere della più tarda età: ne è palese dimostrazione il toccante paesaggio sonoro di Steer Your Way, col registro vocale a conferire una solennità profetica alle liriche taglienti mentre il sound avvolgente rimanda alla migliore vena folk del passato.
Se però da un lato la poesia del cantautore resta intatta, qui e lì si delineano come opinabili le soluzioni messe in atto dalla produzione artistica, affidata al figlio Adam: a tratti, la voce poco allineata al resto degli strumenti spezza l’armonia e svilisce le linee melodiche, spesso già di per sè non troppo ispirate, e un’eccessiva varietà negli arrangiamenti finisce per conferire all’album un aspetto poco coerente: si avverte la nostalgia, in alcuni brani, di una più semplice veste acustica a mettere in rilievo i pregi del Cohen maturo. Un artista che, nel 2016, continua a stupirci mettendo a nudo le infinite sfaccettature del proprio animo e, ne siamo certi, non ha alcuna necessità di quel di più che stona come l’imposizione di un attributo posticcio – un indigesto “lifting” elettronico-digitale – a un estro creativo che conta, fra le caratteristiche che ne delineano la cifra stilistica, la genuinità.