Nell’autunno del 1842, il poeta canadese Antoine Gérin-Lajoie compose una canzone per ricordare i condannati politici, e i prigionieri deportati in Australia e Stati Uniti, dopo la stagione ribelle dei francofoni del Basso-Canada. Il titolo della canzone (diventata un classico folk del Quebec) è Un Canadien errant, composta in una sola notte ispiratissima, e racconta il sentimento di un canadese vagabondo, lontano dalla sua terra, esiliato dalla sua casa, che chiede all’acqua di un fiume che scorre di portare i suoi saluti al Canada.
Non c’è da stupirsi che un canadese come Leonard Cohen abbia deciso di reinterpretare il pezzo, dove esplodono sentimenti di saudade e distanza. Nel documentario The Song of Leonard Cohen di Harry Rasky, Cohen traduce il pezzo dal francese (lingua in cui il canto acquista il suo autentico significato, visto che la battaglia canadese fu tra francofoni e anglofoni) in inglese, e alla domanda se si sentisse anche lui un canadien errant, risponde sorridente “Proprio così“. Senza mezzi termini.
Sono giorni strani non solo per i canadesi ma anche per ogni anima errante su questa terra, e ascoltare questo vecchio canto che invoca casa e volti con nostalgia ci rende il conto del nostro eterno umano pellegrinaggio, del nostro profondo bisogno di riferimenti e radici prime. Se è vero che siamo avventurieri, curiosi, ricercatori prodigiosi, ed erranti per natura, la condizione dell’anima errante che non ha altra scelta è quella più tormentata.
Nel reintepretare Un canadien errant, Leonard Cohen ha voluto cantare e ricordarci la condizione umana di distanza e dispersione. Anche lui è un’anima in eterna ricerca, coi suoi privati combattimenti, ma la sua è principalmente una battaglia artistica. La maggior parte dell’umanità errante fa invece i conti con una battaglia più radicale, come durante la grande deportazione degli acadiani canadesi. Gli inglesi volevano il Canada tutto per loro, e così li cacciarono via. È sempre la stessa storia in fondo, quella del canadese errante, e dell’acadiano errante, e dell’armeno, siriano, indiano.
Da una parte la natura umana irrequieta, dall’altro la fuga forzata, l’esilio. Da una parte le mirabolanti avventure di Jack Kerouac e la beat generation, la lunga traversata dell’America, i viaggi sud-americani di Ernesto Guevara prima dell’esplosione del moto di ingiustizia, fino alle fughe dei poeti del Sudamerica in tempi di regime. L’altro volto è nella condizione umana dell’errante che deve spostarsi dalla sua terra e dalla sua casa, perché restare è morire.
Di poeti erranti come Leonard Cohen ne abbiamo visti passare tanti da queste parti di mondo. Alcuni come Bertolt Brecht non ebbero altra scelta che l’esilio ai tempi del regime nazista. Brecht se ne andò in giro per l’Europa per continuare a scrivere, mentre i suoi libri venivano messi al rogo in patria. Peggio andò al poeta turco Nâzım Hikmet, che oltre all’esilio dovette scontare anni di carcere. A volte, tra le sue parole, possiamo restare colpiti da quello che è il dramma di un uomo errante, costretto a spostarsi, fuggire, cercare casa dove non c’è casa. Ma nella folle razza dei poeti c’è anche chi, come García Lorca, rifiuterà l’esilio e nella sua terra resterà a morire.
E non è un caso che l’errante Cohen (figlio di ebrei fuggiti dall’Europa) abbia tradotto in una canzone alcuni versi dell’anima fraterna di García Lorca, la poesia Piccolo Valzer Viennese che diventa Take This Waltz. Al centro un valzer a Vienna, l’invito a una danza, cosa avessero a che fare un canadese e uno spagnolo errante con i balli nella capitale austriaca sarebbe difficile da comprendere se non parlassimo di poeti. Ci stanno invitando ad errare con loro per le strade di Vienna, non andreste subito?