«L’Iran non è mica la Svizzera», si dice così in tono sarcastico per indicare quello a cui la Repubblica islamica dell’Iran va contro, in sostanza i gesti e i costumi occidentali. Bisogna tenere ben a mente queste parole durante la lettura di uno dei libri più belli degli ultimi quindici anni. Esatto, proprio quindici anni fa usciva Leggere Lolita a Teheran, edito da Adelphi, di Azar Nafisi. Un promemoria, questo libro, sul valore inestimabile di tutto ciò che diamo per scontato: ridere in pubblico, o leggere per l’appunto un libro come Lolita di Nabokov. Sono otto donne le protagoniste di questo racconto tanto amaro quanto brillante: Azar Nafisi in prima persona e le sette miglior allieve dei suoi corsi presso l’Università di Teheran. Con loro e attraverso loro, Azar compie un atto di amore e di coraggio; organizzando un seminario privato, nel salotto della propria abitazione, per discutere di libri combatte quello che la stessa autrice chiama il «censore cieco», il regime totalitario della Repubblica islamica dell’Iran. È un libro che è in primo luogo un’esperienza di vita reale. Si parla di donne, di una realtà asfissiante e della letteratura come mezzo per sfuggire da essa. La letteratura è autodifesa e nello stesso tempo attacco.
Il libro è pieno zeppo di riferimenti storici, il tutto si riconduce alla difficoltà della vita post-rivoluzione del 1979. Quarant’anni fa il destino dell’Iran è stato completamente stravolto: la monarchia venne rovesciata in favore della repubblica dell’ayatollah Khomeini. Khomeini impose un sistema di governo interamente basato sulla legge coranica e le donne divennero l’oggetto delle leggi più restrittive. Il corpo, simbolo di seduzione e di condotta sessuale sregolata, andava coperto. I capelli da nascondere e il sorriso da evitare. I soggetti di questo libro – Manna, Azin, Mahshid, Nassrin, Yassi, Mitra e Sanaz – non possono quindi percepirsi nella loro interezza. Hanno un’immagine incerta di sé stesse: riescono a vedersi solo attraverso lo sguardo degli altri, in modo particolare quello di chi le tiene in pugno e le disprezza. Solo così è possibile concepire una donna in Iran, costretta a rendersi invisibile fino a quando un uomo non decide di guardarla.
La rivoluzione (e la successiva guerra contro l’Iraq) ebbe come conseguenza la perdita di ogni briciolo di umanità: «vuoi sapere che cosa si prova a scoprirsi inesistenti?». Simbolo e luogo centrale della storia di Nafisi è il mondo universitario. Dapprima come insegnante vivace e successivamente come esule. Il Comitato della Repubblica islamica aveva il compito di riformare il sistema universitario così da renderlo concorde ai precetti religiosi; il che in tempo di rivoluzione significò rendere l’università un aperto campo di battaglia, da un lato le forze laiche e di sinistra e dall’altro quelle della repubblica. Molti autori vennero messi al bando, le librerie chiuse in massa. Il mercato nero risultava essere l’unico spiraglio per un’istruzione liberale, ma ovviamente poco accessibile alla popolazione, figuriamoci a quella femminile. Ma sorge spontaneo chiedersi che tipo di istruzione è quella che decide a priori cosa sia giusto imparare, che viene imposta per partito preso. L’atto di fede che compie l’autrice con le sue giovani studentesse è verso una libertà che, in un contesto del genere, solo i libri possono concedere. Quello che era necessario per sopravvivere in una società che impone come e cosa essere era mantenere il diritto all’immaginazione, unico rifugio possibile.
Le ragazze attraverso i personaggi della grande letteratura compiono un percorso in cui la loro storia personale si fa largo sempre più pesantemente. Si parte con Lolita per passare poi, nel susseguirsi dei capitoli, a Gatsby, Henry James e Jane Austen. Sembrerebbe assurdo pensare che delle ragazze iraniane, in piena rivoluzione, abbiano punti in comune con Lolita; invece, il paragone è più lecito e opportuno di quanto si creda. Lolita è abbandonata al suo Humbert Humbert; non ha scelta e non ha diritto di replica. È così vittima due volte: le viene sottratta la libertà di vivere secondo i suoi canoni e la possibilità di raccontare la sua versione dei fatti, come la stragrande maggioranza delle donne in Iran. Anche l’età costituisce un parallelismo che funziona. Lolita all’inizio del romanzo di Nabokov ha solo 12 anni – una bambina – ma se Dolores Haze fosse stata una bambina iraniana, sarebbe stata già da tempo considerata “matura” per sposare e avere rapporti sessuali con uomini più grandi. In Iran, infatti, dopo la rivoluzione per sposarsi e avere figli basta aver compiuto 9 anni lunari. Con Fitzgerald, James e Austen è dunque possibile – se non necessario – costruire delle contro-realtà dove è concesso togliersi il velo, ridere e scherzare. Il messaggio unanime che scaturisce da tutti gli incontri è la necessità di vivere di letteratura: questa rende liberi contro i totalitarismi.
Sono passati quarant’anni dalla rivoluzione e quindici dalla pubblicazione del libro, eppure rimane attualissimo. La condizione attuale delle donne in Iran, nonostante siano avvenute diverse trasformazioni sociali, rimane critica. Lo stupro coniugale, ad esempio, e la violenza domestica non sono considerati dalla legge reati penali. Lo spirito di denuncia e di coraggio che è palpabile in Azar Nafisi riecheggia oggi in quello di Nasrin Sotoudeh, avvocatessa per i diritti umani, la cui sorte è un pugno nello stomaco: 33 anni di carcere e 148 frustate. Oppure in quello di Vida Movahed, la quale ha pubblicamente sfidato il governo sventolando davanti ai passanti il velo, ancora obbligatorio per tutte le donne a partire dai nove anni di età. Questo è un libro che parla di libri, non si può certo negare, ma non solo. È una denuncia contro gli abusi, contro il mancato riconoscimento dei diritti basilari degli essere umani. È pur vero che non basta un libro per ricordarci di essere umani, ma può essere un punto di partenza.