Violence is part of American culture,
violence is as American as cherry pie
(H. Rap Brown)
Lo scorso 3 febbraio hanno ufficialmente avuto inizio le primarie dei Democratici negli Stati Uniti, che determineranno il candidato che sfiderà Donald Trump nella corsa per la Casa Bianca il prossimo 3 novembre. Dopo le votazioni nei primi quattro stati – Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina -, a emergere come iniziale front-runner è stato Bernie Sanders. Il senatore socialista-democratico del Vermont, ex sindaco di Burlington, presenta un ambizioso programma elettorale che mette al centro sanità pubblica, istruzione universitaria gratuita, la cancellazione dei debiti universitari per gli studenti e una radicale riforma del sistema penale. L’obiettivo di Sanders è rivoluzionare l’intero apparato elettorale, sociale e politico, che da un lato si assicura il mantenimento degli Stati Uniti come principale potenza al mondo, dall’altro è complice di una massiccia disparità di reddito e classe, e un sistema penale votato al profitto delle carceri private, a discapito – soprattutto – della popolazione maschile afro-americana.
Non è un segreto che Bernie non sia il candidato preferito dell’establishment democratico, e il timore per la sua ascesa ha portato, proprio alla vigilia del Super Tuesday del 3 marzo (il famoso martedì in cui si tengono le elezioni in 14 stati), a un inaspettato maxi-endorsement a Joe Biden da parte dei candidati moderati uscenti Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, nonché dall’ex candidato texano Beto O’Rourke. Bernie, che prima della sua candidatura nel 2016 è sempre stato un senatore indipendente, denuncia la corruzione interna al Partito Repubblicano quanto a quello Democratico e instancabilmente polemizza contro i candidati centristi, che ricevono grandi donazioni per garantire gli interessi privati (su tutti, quelli delle case farmaceutiche). Uno dei casi più emblematici durante queste primarie è stato quello di “Wine Cave Pete”, cioè quando a dicembre Buttigieg ha tenuto una raccolta fondi in compagnia di milionari e miliardari in una prestigiosa enoteca. Il volto della DNC dal 2016 ad oggi ha rivelato la sua duplice facciata: da un lato i candidati centristi, che cercano di mantenere lo status quo e vedono erroneamente Trump non come il sintomo, ma come un problema, dall’altro l’ala progressista e socialdemocratica, che col suo populismo di sinistra sta incentivando elettori indipendenti e alienati a unirsi a un movimento che va sempre più espandendosi.
Nel frattempo Elizabeth Warren, l’unica candidata che condivide l’agenda progressive di Bernie, non lascia la corsa, benché finora abbia collezionato una sconfitta dopo l’altra e sia arrivata terza nel suo stesso stato, il Massachusetts. È evidente, come lo è stato nel 2016 nella corsa per le primarie Clinton vs Sanders, che anche questa volta il messaggio è Tutti contro Bernie; e analizzando i risultati post-Super Tuesday, che mostrano Biden vittorioso in 9 dei 14 stati, ci sono riusciti. Sono numerosi i supporters di Bernie che affermano che il Partito Democratico preferirebbe altri quattro anni di Trump, piuttosto che la vittoria di Bernie. Ma la working class America dietro a Sanders non si ferma.
Bernie, con il suo movimento interrazziale e intergenerazionale, unito sotto lo slogan “Not me, us”, deve la sua ascesa e momentum soprattutto all’organizzazione capillare dei suoi volontari su tutto il territorio statunitense, nonché ai principali surrogates della sua campagna elettorale, che intervengono ai suoi rallies ed espongono con chiarezza la sua agenda presso le principali emittenti televisive. Tra i numerosi surrogates spicca il rapper e attivista Killer Mike: classe ’75, originario di Atlanta, sostiene l’agenda di Sanders anche perché echeggia la Poor People’s Campaign di MLK. Proprio in occasione di uno di questi maxi-raduni, il rapper ha menzionato uno dei suoi scrittori preferiti da ragazzo – James Baldwin, citando uno dei suoi discorsi dal titolo The time is now, che recita: “You asked my father to wait, my brother to wait, my uncle to wait, how long must I wait on freedom? How long must I wait on rights, on equity and liberty?”.
È dagli anni Duemila che nei programmi scolastici americani il nome di James Baldwin va sbiadendo, mentre in precedenza le sue opere erano insegnate accanto a quelle di Martin Luther King Jr, Maya Angelou e Richard Wright. L’oblio in cui sembra versare il nome dell’autore risulta paradossale, considerata la lucidità e lungimiranza del suo sguardo nell’affrontare la “questione nera”. Ed è stata proprio quella lungimiranza a costargli cara fra i suoi contemporanei: il pensiero di James Baldwin sfuggiva alla categoria binaria di alterità noi vs voi, e questa sua inafferrabile anomalia ha attirato e respinto sia bianchi che neri.
Baldwin nasce in una famiglia povera di Harlem il 2 agosto del ’24, è il primo di nove figli. A 14 anni, seguendo le orme del patrigno, inizia a lavorare come predicatore; anche se solo tre anni dopo decide di abbandonare la tonaca, non è mai riuscito a lasciarsi il pulpito alle spalle. Dopo il periodo sull’altare iniziano gli anni da scrittore freelance, finché a 24 anni non decide di trasferirsi a Parigi per mettere un oceano di distanza dalla sua terra nativa. Infatti, Baldwin ama l’America più di ogni altra nazione al mondo, e proprio in virtù di ciò si riserva il diritto di esserne il più vigoroso e instancabile critico. Nel ’53 pubblica il suo primo romanzo, Go Tell it on the Mountain: una sorta di memoir a proposito della sua esperienza nel crescere ad Harlem. In quest’opera, la testimonianza del suo quotidiano si rivela come paradigma diffuso e comune delle difficoltà quotidiane degli afroamericani cresciuti in quei quartieri. In quegli anni Baldwin trascorre molto tempo all’estero, e pubblica alcune delle sue opere oggi considerate classici americani: la raccolta di saggi Notes of a Native Son (1955), e due romanzi – La stanza di Giovanni (1956) e Un altro Mondo (1962); quest’ultimo, romanzo jazz dove la discriminazione razziale invade la sfera intima e degli affetti, diventa subito un best-seller.
Tuttavia è soprattutto nella saggistica che la penna di Baldwin raggiunge la lucidità, l’onestà e la capacità analitica pungente che l’hanno reso uno degli intellettuali afro-americani più controversi e necessari negli anni della segregazione razziale, e più in generale della letteratura americana del Novecento. L’esperienza all’estero si rivela tappa necessaria perché l’autore possa acquisire una prospettiva sulla realtà americana – scrive, infatti, che solo trovandosi in un’altra civilizzazione si è costretti a esaminare la propria. L’esito di questa lunga analisi in solitudine a quasi 6000 km da casa prende la forma di una responsabilità personale via via più pressante: decide di fare ritorno negli Stati Uniti, e di prendere parte al movimento per la lotta dei diritti civili. Ritornato in patria, Baldwin si spinge ben oltre i confini di Harlem, viaggiando in diverse occasioni nel Profondo Sud, documentando e seguendo le tensioni e le battaglie razziali. Nel ’63 pubblica The Fire Next Time, dal contenuto saggistico e profondamente autobiografico come Notes of a Native Son, che diventa subito un caso editoriale e porta Baldwin sulla copertina del TIME Magazine. In Italia, Fandango ha recentemente pubblicato La prossima volta il fuoco (traduzione di Attilio Veraldi), e la stessa casa editrice ha pubblicato i suoi romanzi Se la strada potesse parlare, La stanza di Giovanni, Un altro mondo e Congo Square.
Gli anni Sessanta sono segnati dall’assassinio di Medgar Evers, Malcolm X e Dr. Martin Luther King Jr, con i quali era unito da un profondo rapporto di stima e amicizia, e in risposta Baldwin decide di ritornare in Francia, dove inizia a lavorare a uno dei suoi più celebri lavori di fiction: If Beale Street Could Talk (Se la strada potesse parlare, Fandango), pubblicato nel ‘74. Il romanzo si presenta come un’amara e disillusa denuncia mossa contro un topos tutt’oggi largamente diffuso negli States, ossia un sistema di giustizia penale sempre più guasto, che si ramifica nell’ingiusta e sproporzionata incarcerazione di giovani uomini di colore, nell’interpretazione della loro mascolinità come possibile minaccia di violenza sessuale (spesso immaginata ai danni di donne caucasiche) e nella police brutality.
Volgendo lo sguardo alle primarie dei democratici, in aperta antitesi ideologica e morale a Bernie Sanders, c’è il candidato Michael Bloomberg, ex sindaco di NY e miliardario con un net-worth stimato intorno ai 60 miliardi di dollari. Con l’incarico di sindaco di New York, Bloomberg ha rafforzato e strenuamente difeso lo stop-and-frisk: un programma del dipartimento di polizia di NY che garantiva ai poliziotti il potere di fermare, interrogare e perquisire al muro qualsiasi soggetto considerato sospetto o pericoloso, nel timore che potesse portare con sé armi da fuoco o coltelli. L’ACLU (American Civil Liberties Union) e altre organizzazioni hanno dichiarato che la polizia abbia violato la Costituzione ricorrendo allo stop-and-frisk principalmente su passanti di colore. Nel 2013 un giudice federale ha dichiarato il programma incostituzionale, basandosi su prove statistiche che dimostravano la chiara linea razzista con cui è stato condotto il programma negli anni della sua applicazione. Nel mese di febbraio sono stati pubblicati degli audio in cui nel 2015 Bloomberg difendeva ancora ostinatamente il programma da lui implementato. Nel 2014 le strade di NY diventano il teatro dell’omicidio di Eric Garner, padre di famiglia quarantenne, avvicinato dalla polizia con l’accusa di vendere illegalmente sigarette sfuse; tentando di ribellarsi allo scontro fisico che ne segue, il poliziotto Daniel Pantaleo gli cinge il collo con le braccia, incurante di Garner che gli ripete di non riuscire a respirare, soffocandolo a morte. Solo nel 2019, e in seguito a importanti mobilitazioni del movimento Black Lives Matter, il commissario O’Neill dichiara Pantaleo colpevole di omicidio e ne ordina la rimozione dal corpo di polizia della città.
I poliziotti che James Baldwin denuncia nei suoi saggi e romanzi degli anni Cinquanta e Sessanta sono gli stessi poliziotti che all’alba del Duemila perquisiscono e sbattono al muro duemila persone al giorno nelle strade di New York, gli stessi a macchiarsi dell’omicidio di Eric Garner. Per Baldwin questi poliziotti, spesso novellini, hanno la necessità di convincersi che il tossicodipendente nero, così come la madre o il ragazzino appena adolescente, appartengano a un’altra specie umana, e giustificare così le proprie azioni: è questa Color Curtain (prendendo in prestito il titolo dell’opera di Richard Wright) che, nella sua reiterata perpetuazione senza ripercussioni, fornisce la giustificazione per le loro azioni. È possibile misurare la distanza dei bianchi americani dalla propria coscienza anche solo osservando la distanza fra l’America bianca e l’America nera; ci si deve interrogare su chi abbia stabilito quella distanza, e per quale gruppo d’individui quella distanza sia stata pensata per offrire protezione.
Tuttavia, le posizioni ideologiche di James Baldwin non sono scevre da critiche, anche all’interno della sua comunità. In The Fire Next Time l’autore afferma che la colpa della segregazione razziale risiede esclusivamente nella white America, ma si spinge oltre: secondo lui, il razzismo ferisce i bianchi a sua volta, perché le persone sono intrappolate nella storia, e la storia è intrappolata in loro. Per queste sue posizioni non apertamente ostili ai bianchi, e la natura piuttosto pacifista delle sue rivendicazioni, Baldwin in quegli anni si trova a dibattere con numerosi attivisti neri e personalità politiche bianche, fungendo da liaison fra i primi e i leader dell’establishment bianco, come Robert Kennedy. Grazie all’eloquenza e alla chiarezza della sua posizione in merito alle turbolenze sociali e razziali di quegli anni, i suoi discorsi vengono benaccolti dal pubblico caucasico, e Kennedy e i suoi tendono a vederlo come un ambasciatore della causa afroamericana – etichetta che Baldwin rifiuta categoricamente a più riprese.
Baldwin si sente spesso alieno nel movimento per i diritti civili: i suoi lunghi soggiorni all’estero sono visti come tradimenti alla causa, aggravati dal suo orientamento sessuale in un periodo in cui l’omofobia era rampante, e un odio verso i bianchi che egli considera corrosivo per la sua comunità, proveniente sia dalle chiese dove ha lavorato, sia dalla Nation of Islam (di cui uno dei più famosi attivisti è stato proprio Malcolm X, noto anche col nome islamico di El-Hajj Malik El-Shabazz). La salvezza della Chiesa e il messaggio d’amore per gli altri si fermano, scrive Baldwin, al suo portone d’ingresso: si incoraggia l’amore solo fra i credenti neri, e l’autore fin dalla giovane età si interroga su quale sia il punto della salvezza se non gli è permesso amare tutti gli altri, a prescindere dal loro comportamento nei suoi confronti. Dall’altro lato, la Nation of Islam, sotto la guida di Elijah Mohammed, andava diffondendo la dottrina secondo la quale c’è prova storica e divina che tutti i bianchi siano maledetti, demoni, e che l’egemonia caucasica avrebbe presto avuto fine, con l’instaurazione del dominio panafricano. La sentenza di Elijah Mohammed è che Dio sia nero, che la loro cattività avrebbe presto avuto fine e che il paradiso dell’uomo bianco è l’inferno dell’uomo nero.
James Baldwin comprende appieno la genesi di questo pensiero: la brutalità cui gli afroamericani sono stati e sono tutt’ora soggetti non ha precedenti storici e non deve essere minimizzata. In un primo momento, scrive Baldwin, un nero non può credere che i bianchi lo stiano trattando così, non capisce cos’ha fatto per meritarselo e quando finalmente realizza che stanno cercando di annientarlo non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è, non è difficile comprendere perché i bianchi vengano paragonati a demoni. Baldwin, nettamente più affine agli ideali di Martin Luther King Jr che a quelli di Malcolm X, teme che la sua comunità smarrisca la propria identità e la propria anima nella lotta per i diritti e libertà, e lo atterrisce l’idea che da vittime dei bianchi possano trasformarsi in carnefici. Questo è proprio il fulcro delle divergenze ideologiche fra l’autore e Malcolm X: quest’ultimo, in quanto portavoce della Nation of Islam, asserisce l’impossibilità di un’efficace integrazione negli Stati Uniti, e suggerisce come soluzione l’instaurazione di una nazione nera indipendente. I principi a favore del nazionalismo nero attirano persino l’attenzione del Partito Nazista Americano: nel ’61, nel corso di un raduno del NOI, prende parte proprio il capo dell’American Nazi Party, George Lincoln Rockwell, che approva l’iniziativa e contribuisce a sua volta con un’offerta di venti dollari. Sia il NOI che i nazisti americani erano concordi nel considerare la propria razza superiore all’altra, e ritenevano che la convivenza fra le due sarebbe irrimediabilmente stata la ricetta per un disastro. Non sorprende, però, che uno dei punti cruciali sui quali i due dissentono sia l’umanità stessa dell’uomo nero, che Rockfeller e i suoi uomini considerano “niente di più di uno scimpanzé”.
Se è vero che egli è critico nei confronti di alcuni dei principi avanzati dagli attivisti della sua comunità, egli è anche aspramente polemico verso il paternalismo tipico dei white liberals nei confronti dei neri; atteggiamento che rivela perfettamente questo prototipo di individuo nell’inno satirico del cantautore socialista Phil Ochs, Love me, I’m a Liberal: «I cried when they shot Medgar Evers, Tear rans down my spine. I cried when they shot Mr. Kennedy, as though I’d lost a father of mine. But Malcolm X got what was coming, He got what he asked for this time. So love me, love me, love me, I’m a liberal. […] But don’t talk about revolution, That’s going a little bit too far. […] I love Puerto Ricans and Negroes, as long as they don’t move next door… So love me, love me, love me, I’m a liberal».
La disamina di Baldwin sull’identità e le vittorie storiche e politiche del continente bianco è puntuale: il loro ideale di progresso è un mezzo traducibile nel loro rito asfissiante di auto-celebrazione per avere ridato libertà agli schiavi (libertà che non hanno mai avuto il diritto di sottrarre in primo luogo), per questo motivo si auto-congratulano e si aspettano tutt’al più, non paghi, di ricevere complimenti da parte della comunità nera. Nell’eterno dibattito intorno alla questione sulle riparazioni, echeggiano le assoluzioni di responsabilità contemporanee a Baldwin e che mantengono ancora la loro attualità: non c’ero, non c’entro con la tratta atlantica, voglio che anche tu persegua il sogno americano e non ho niente contro di te, non capisco cosa vuoi da me, anche i miei antenati (gli irlandesi) erano schiavi; tuttavia successivamente tra di loro avrebbero celebrato la propria storia, quella per cui non sono intenzionati a pagare e dalla quale, materialmente, hanno ottenuto così tanto. Baldwin nei suoi saggi degli anni Sessanta e nei programmi televisivi si scontra spesso con questi individui che, messi a disagio davanti alle sagaci constatazioni sulla razza e l’identità di Baldwin, si avvalgono spesso della discriminazione subita dai loro presunti antenati, nonni o genitori, italiani, greci, irlandesi. Questo espediente viene ad oggi ancora utilizzato, spesso come tropo dall’Alt-Right. A tal proposito Baldwin scrive:
They come through Ellis Island, where Giorgio becomes Joe, Pappavasiliu becomes Palmer, Evangelos becomes Evans, Goldsmith becomes Smith or Gold, and Avakian becomes King. So, with a painless change of name, and in the twinkling of an eye, one becomes a white American.
The Irish middle passage was as foul as my own, and as dishonorable on the part of these responsible for it. But the Irish became white when they got here and began rising in the world, whereas I became black and began sinking.
Baldwin, avverso a qualsiasi forma di nazionalismo e dalle convinzioni nettamente più pacifiste e di più facile assimilazione per il pubblico bianco del suo tempo, è dell’idea che per umanizzare appieno un personaggio o individuo nero non sia necessario disumanizzare del tutto quello bianco. La lettera intitolata My Dungeon Shook (in The Fire next Time) è un appello che l’autore rivolge al nipote ad accettare i bianchi con amore, avvertendolo a proposito della loro incertezza e fragilità di fronte ai grandi cambiamenti che minano alla loro perdita d’identità: il prezzo della liberazione dei bianchi, scrive l’autore, è quello della liberazione dei neri – la liberazione totale, nelle città e nei villaggi, dinnanzi alla legge e nelle coscienze. I neri non possono mirare alla libertà finché loro non saranno liberi dalle sabbie mobili della storia che li ha visti eroi superiori incontestati. La lettera viene scritta in occasione dei cent’anni dalla liberazione degli schiavi, ma James Baldwin ben comprende che tale celebrazione stia avendo luogo cent’anni prima.
A soli 63 anni, James Baldwin muore di cancro allo stomaco. Sebbene si sia sempre sentito, a sua volta, impotentemente intrappolato nella storia, ha potuto assistere – al contrario dei suoi compagni Malcolm X, Martin Luther Jr e Medgar Evers – ad alcune cruciali vittorie nella battaglia per i diritti civili. In vita, Baldwin riteneva di avere molte responsabilità, ma nessuna più grande, citando Hemingway, del perdurare e del portare avanti il proprio lavoro. Le sue opere lo rivelano ancora, nel 2020, come uno dei più acuti osservatori dell’America nera: quella dei derelitti, dei tossicodipendenti, delle prostitute e dei carcerati, ma anche degli attivisti, degli eroi, degli implacabili – egli li descrive in modo così realistico ed efficace perché li ha conosciuti, erano i suoi amici e vicini, era la sua gente. Egli più di tutto voleva essere un uomo onesto e un buon scrittore. È senz’altro riuscito in questo, e molto altro ancora.