In molte delle interviste concesse dopo la pubblicazione di “Mani nella terra”, il suo romanzo d’esordio, lo scrittore statunitense Lee Cole dichiara che sono tre le ispirazioni letterarie della sua scrittura e le cita in ordine di importanza: Bobbie Ann Mason, Lucia Berlin e Raymond Carver. Non è una coincidenza che tutti e tre questi nomi abbiano trovato nella storia breve la loro massima espressione letteraria. “Mani nella terra”, edito in Italia da Marsilio nella traduzione di Martina Testa, ma uscito negli Stati Uniti nel 2022 col titolo “Groundskeeping” – ovvero l’attività di cura paesaggistica di grossi appezzamenti di terreno, un giardinaggio in larga scala – breve non è, ma il suo protagonista, Owen Callhan, è un aspirante scrittore e come tale si cimenta nelle storie brevi su ciò che conosce, la sua terra, il Kentucky, un po’ come faceva Bobbie Ann Mason. Siamo nella periferia estrema di Louisville nel 2016 e Owen, 28 anni, vive temporaneamente a casa del nonno dopo un periodo difficile di vita in auto tra dipendenze e depressione. La nazione intorno si sgretola divisa dall’elezione di Trump, Owen ne risente, anzi chiunque intorno a lui ne risente e le discussioni sul tema si fanno accese e cieche: non ci sono punti di contatto, la democrazia è in pericolo per molti, sebbene l’area rurale in cui è ambientato il romanzo si culli placida nell’idea che il nuovo presidente cambierà il volto del territorio e risanerà le casse delle industrie manifatturiere, come da promesse. Non cambierà nulla, ma per il popolo del MAGA, Make America Great Again, non farà differenza.
Owen è un uomo incerto, attento, sensibile, rimugina in continuazione e prima di dormire annota qualche immagine della giornata da riutilizzare nei suoi racconti. Nel quinto rigo della prima parte del romanzo, scritto in prima persona in una sorta di gioco di autofiction fra personaggio e scrittore, Owen incontra Alma Hadzic, anche lei scrittrice, figlia di immigrati bosniaci arrivati a Washington negli anni Novanta subito dopo l’inizio della Guerra dei Balcani. Si guardano, si parlano, si inseguono per almeno un terzo del libro, poi nasce l’amore. Lei è colta, ha una laurea prestigiosa, una borsa di studio all’Ashby College, dove si incontrano, un libro già pubblicato e uno in arrivo; Owen, invece, ha appena ripreso in mano la sua vita dopo la laurea con un lavoro da giardiniere e un corso di scrittura creativa nello stesso College frequentato da Alma. “Mani nella terra” è, quindi, una storia d’amore, ma anche il romanzo di formazione sia di Owen che di Alma, nonché il ritratto di un territorio in questo preciso periodo storico.
I personaggi
Il grande obiettivo raggiunto dalla scrittura di Cole in questo suo esordio sta nel protagonista principale, Owen: non è una macchietta, nonostante un romanzo su due scrittori possa sembrare l’apoteosi dei cliché, ma, anzi, è la giusta intelligenza narrativa di Cole che rende “Owen” reale. Sarà l’illusione del gioco di autofiction – anche Cole è stato uno scrittore/giardiniere, anche se ora è insegnante di scrittura creativa a New York -, ma sarà anche la capacità di Cole di raccontare ogni aspetto di una psicologia complessa. Di Owen conosciamo il trasporto per Alma, a volte delicato, a volte ottuso come ci abitua la letteratura maschile, ma comunque perdonabile perché qualche riga dopo Owen si frantuma come un uomo reale, non un personaggio di un libro. Il lavoro manuale per lui è sacro, ma anche un ripiego, e si ritrova a dire ad Alma, forse scherzando, forse no, che è tutta la vita che sogna di diventare un «intellettuale borghese», come lei. Owen è un osservatore, si esaspera per le somiglianze nei tratti tra il nonno e la madre, discute animatamente di politica con lo zio Cort, gravissimi problemi di depressione alle spalle a seguito di un incidente d’auto di cui è stato vittima da giovane, anche lui nella stessa casa col nonno. Spesso Owen ha paura, si sente perso e va nel panico cercando a tutti i costi di nasconderlo, ma si perdona per il suo passato – o presente, chi lo sa – da depresso e aggiunge: «Chi non lo sarebbe stato?».
Alma, invece, proviene da un background culturale differente e indossa quasi sempre gli scarponi. A volte Cole si lascia prendere la mano con le descrizioni stereotipate sul suo corpo, ma ha un pregio essenziale: nell’arco del romanzo cresce inesorabilmente, matura come donna e come scrittrice, soffre, si allontana da Owen più volte, lambisce il mondo di lui, eccezione in una famiglia della classe operaia completamente votata alla religiosità oscurantista che contesta con decisione – del resto siamo in piena Bible Belt, quella zona degli Stati Uniti caratterizzata dall’altissima percentuale di evangelici.
Insieme Owen e Alma parlano di letteratura, scrittura e solitudine, analizzano l’America che vivono, l’odio verso il diverso, indagano l’abuso di sostanze di lui, le posizioni comuni sulle opere di John Cheever ed Emily Brontë, e insieme si isolano fino a perdersi l’uno nell’altro per poi ritrovarsi diversi e distanti.
A contorno le loro famiglie, diverse e problematiche in modi differenti e complementari, e il nonno, cuore pulsante dell’intero romanzo, come l’ha definito il NY Times. Si tratta di un veterano della Seconda guerra mondiale piegato dal lavoro manuale e dal tempo, non necessariamente in quest’ordine, amante dei western e di John Wayne, accogliente e saggio nonostante le poche parole e i concetti semplici, porto sicuro per Owen, salvezza fino alla fine.
Il territorio e il tessuto sociale
Avevo passato troppi anni con la gente del Kentucky, gente di cui trovavo prevedibili i fallimenti, gli appigli esistenziali e gli attimi di gioia, proprio perché erano anche i miei. Per buona parte della mia vita avevo voluto staccarmi da quell’ambiente, cioè staccarmi da me stesso. Stando con Alma […] riuscii a dimenticare, per un attimo, chi ero e da dove venivo.
Owen vive il Kentucky con un’intensità riconoscibile da tutti coloro che fanno a pugni con la propria terra d’origine: a disagio quando ci vivono, corrosi dalla nostalgia quando sono lontani. E il Kentucky, patria anche di Lee Cole sempre per il gioco di rimandi dell’apparente autofiction, è l’altro protagonista. Sì, è vero, lo si dice sempre quando si tratta di un romanzo così radicato nel territorio, ma il Kentucky dipinto da Cole è una storia d’amore a parte, quella tra uno scrittore e la sua casa, in cui le problematicità non si nascondono dietro tramonti d’oro o panorami decantanti da versi in rima. Anzi, attraverso Owen, Lee Cole affonda le mani nel torbido di uno stato rurale che si piega alla gentrificazione, ai conflitti politici, alle bugie di un presidente inetto.
E ci sono cavalli dalle tue parti?, continuò lei.
Qualcuno sì. Ma in realtà non è zona di allevamenti.
E cosa c’è, invece?
Il tabacco, risposi io. Il mais, la soia, mandrie di bovini. Fast food, chiese, stabilimenti.
In che senso stabilimenti?
Stabilimenti industriali.
[…]
La Usec, la centrale nucleare. La Westvaco, una cartiera. La Westlake Chemical a Calvert City. La Honeywell sull’altro lato del fiume, a Metropolis. La BelCo, dove lavora il marito di mia madre. Tutte fabbriche di veleni, fondamentalmente. Si potrebbe dire che siamo la capitale dei veleni d’America.
La dedizione di Cole per il territorio che racconta riporta la mente a “Ohio” di Stephen Markley: stesso impianto narrativo – un protagonista, un territorio, il 2016, Trump -, stessa rappresentazione attenta dell’America rurale divisa e impoverita. Sono romanzi simili e diversi. “Ohio” concentrato su più protagonisti e un intreccio imbattibile nella nuova letteratura statunitense – incredibile per un esordio -, “Mani nella terra” più focalizzato sulle relazioni e il contesto sociale, più sensibile per certi versi, capace di narrare non solo la disperazione di due millennial, ma riuscendo a collocarli anche nelle relazioni con le generazioni più adulte. La descrizione che Cole fa della provincia e di chi la abita arricchisce il romanzo di sfumature empatiche. Dello zio Cort, per esempio, Owen dirà che il suo sostegno cieco alla destra più bieca è «l’ennesima grossolana espressione della sua rabbia. Un dito alzato contro chiunque avesse una vita migliore della sua. Questa non era una scusante, certo. Ma quando la vedevo così, riuscivo quasi a capirlo». Ma quasi in conclusione l’amarezza riaffiora in una frase che parla del Kentucky, degli Stati Uniti tutti, ma anche dell’Europa, dell’Italia e del mondo intero:
Nel mondo esterno andava in scena la squilli da apocalisse al rallentatore del tardo capitalismo, ma qui, all’interno delle mura di pietra, c’erano pace e silenzio […].
Ancora una volta la salvezza arriva dalla quiete di un sentimento, dal piccolo che c’è intorno a sé, dalle ambizioni timide di scrittura che si possono coltivare a dispetto del mercato, delle élite, dei soliti noti, dell’omologazione.
La scrittura
Lee Cole, lo dice anche la copertina italiana dell’edizione Marsilio citando il New York Times, «promette una brillante carriera», un esordio accorato che descrive con sentimento volti, reazioni, luoghi con la stessa intensità. Cole filtra tutto con lo sguardo e gli umori di Owen, alla fine quasi ci si chiede se Alma e la sua interiorità non siano che una sua proiezione. Cole sa usare le metafore con parsimonia e intelligenza, pecca indugiando con qualche elenco di troppo, qualche racconto di Owen spiegato fin nel dettaglio e il cliché comune a mezza popolazione mondiale che i libri e la scrittura salvino le singole vite, ma eccelle quando si sofferma su stati d’animo e psicologia dei personaggi, anche con dettagli dissonanti solo in apparenza: «Per un attimo perse il contatto con la realtà, fissò lo sguardo su nulla in particolare, poi parve ricordarsi che stava parlando di qualcosa.»
“Mani nella terra” è un esordio brillante pur con qualche pecca; un metaromanzo nel senso che, mentre si legge, si assiste quasi alla sua stessa stesura. E quel finale volutamente incerto è la conclusione ideale di un viaggio che inizia con la stessa delicatezza con cui “non” finisce.