Lo scorso luglio, la pop star britannica di origine kosovara Dua Lipa finiva nel mirino delle polemiche in seguito alla pubblicazione, su Twitter, di una mappa della “Grande Albania”, ovvero un progetto geopolitico su base etnica che oltre allo stato albanese include il Kosovo, parte della Macedonia del Nord, del Montenegro e della Grecia. Inoltre, lo scorso 8 agosto ricorreva il ventinovesimo anniversario dello sbarco della Vlora: la nave mercantile che da Durazzo salpò verso il porto barese, portando con sé ventimila albanesi, ancora oggi ricordo indelebile per la popolazione locale che assistette allo sbarco.
Il denominatore comune di questi due episodi è l’Albania: da un lato espressione di uno spirito nostalgico-nazionalistico, dall’altro come palcoscenico dei drammatici eventi degli anni Novanta.
È anche su questa dicotomia tra un’Albania leggendaria e grandiosa e quella prossima al collasso economico, che si sviluppa “Le Transizioni”, romanzo di Pajtim Statovci uscito a febbraio per Sellerio Editore. Statovci, classe 1990, è un giovane scrittore finlandese di origine kosovara, emigrato con la famiglia a nord quando aveva solo due anni, per sfuggire alla guerra. Il titolo originale del romanzo, pubblicato per la prima volta in finlandese nel 2016, è “Tiranan sydän”, ovvero “Il cuore di Tirana”.
È la capitale albanese, infatti, che funge da principale sfondo per le vicende del protagonista, il quattordicenne Bujar, che abita con la sua famiglia nella Tirana impoverita degli anni Novanta, ascoltando le storie del padre sulla grande e invincibile Albania. La Shqipëria delle storie del padre è la terra dell’aquila bifronte, dove gli uomini del grande patriota Skanderberg avevano lottato coraggiosamente contro l’avanzata ottomana, l’invincibile Albania dove in alcune leggende folcloristiche gli uomini si rialzano dalla tomba per onorare le promesse fatte in vita. Eppure il Paese che Bujar ha davanti in quegli anni non ha nulla di grandioso, è un paese la cui economia è al tracollo e i bambini si aggirano per le strade affamati e sporchi, ragazzine minorenni vendono il proprio corpo, e in cui tra i giovani serpeggia anche il timore aggiunto di essere vittime della tratta di esseri umani: per Bujar è una nazione di cui è impossibile andare orgogliosi. Il protagonista si sente estraneo in quella caotica terra abbandonata, alieno all’interno della sua famiglia, a quella cultura ossessionata dall’onore e dal machismo. L’unica persona a cui Bujar è profondamente legato è l’amico e vicino di casa Agim, che diventerà il suo primo amore. È proprio nelle fitte conversazioni con Agim che il protagonista inizierà a mettere in discussione l’idea che le categorie di genere, sessualità e nazionalità siano immutabili.
In seguito alla decisione di lasciarsi alle spalle Tirana e l’Albania, Bujar inizia un viaggio fisico e interiore, si sposta a Roma, Berlino, New York ed Helsinki, e a ogni tappa corrisponde una reinvenzione di sé: Bujar diventa Ariana, una ragazza ventitreenne di Sarajevo, o Tanya, donna transessuale in Finlandia, nelle sue passeggiate a Roma infastidisce i passanti con la sua sola presenza, perché questi sono incapaci di identificare se sia un uomo o una donna. Può scegliere chi è, il suo sesso, la nazionalità, il nome e il luogo di origine: alla stregua dei miti albanesi del padre, può crearsi il mito della propria origine, e mutarlo continuamente, assumendo identità diverse e fluide.
“Perché non puoi essere una donna o un uomo semplicemente dichiarandolo, indossando vestiti da donna o da uomo, mi chiedo mentre la ascolto, perché non ci si può presentare nel modo che si desidera? Se voglio usare un nome da donna, o un nome straniero, mi basta dirlo e nessuno mi chiede di dimostrarlo.”
Bujar/Ariana/Tanya sono persone apolidi, le loro case e identità in continua ridefinizione, come castelli di sabbia travolti dalle onde che vengono ricostruiti ogni volta, sempre differenti da quelli precedenti. Il romanzo di Statovci è un inno all’essere umano liquido: rivendica la libertà di poterci definire, a partire dal nome, dal nostro paese d’origine, al genere con cui ci identifichiamo. Non uomo o donna, ma tutti e due o nessuno; non una singola patria, ma il mondo intero.