La vita di Valerio Scordia sembra scorrere inesorabile verso una disfatta. Quasi quarant’anni, una carriera altalenante come critico musicale, rapporti personali ridotti all’osso e viziati da una incomunicabilità quasi patologica. Il personaggio nato dalla penna di Nicola H. Cosentino per il suo “Le tracce fantasma”, edito da minimum fax, sembrerebbe essere uno dei tanti sconfitti, ma la sua storia prende pieghe magiche e visionarie che raccontano un’intera generazione e i suoi errori. Cosentino ritorna, allora, al romanzo, il suo terzo, con molte domande, ma anche tante risposte e una speranza di riscatto che fa capolino, timida, all’inizio, quasi impercettibile perché il coinvolgimento delle cadute di Valerio è totale, ma che poi si apre e inonda ogni cosa, protagonista compreso. Ci si sente partecipi dalle vicende di Valerio e c’è più di un soliloquio illuminante e altrettanti dialoghi con personaggi che si rivelano veri e propri angeli custodi. In un messaggio in un forum online di medicina, all’inizio del suo malessere, Valerio scrive:
Ammetto di vivere un periodo non facile. Sempre più spesso, cari dottori, mi capita di provare una profonda malinconia. Ogni giorno mi sveglio da un tormento legato ai treni che ho perso. Non riesco a pensare ad altro. E mi chiedo come sia possibile, che razza di tortura sia nascere con un’ambizione se sei totalmente privo dei mezzi per realizzarla. […]
Ti capisco Valerio, siamo irrisolti in due, anzi, non solo noi.
Il percorso verso il riscatto prende corpo grazie alle visioni del passato che è la musica a innescare. Valerio, infatti, viaggia nel tempo e nello spazio tramite stati allucinatori indotti dalla musica; in queste visioni ricerca i suoi perché, naviga la vita che è stata e ricostruisce gli errori fatti con la sua amata ex fidanzata, Anna, altro motore della sua crisi e punto di vista a sorpresa. Ma sarà un percorso tanto accidentato quanto doloroso attraverso i suoi fallimenti che, durante un dialogo con la collega che lo prende a cuore, Elisabetta Maffoni, Valerio pensa:
L’abitudine a ripiombare nella propria mediocrità, a trovarla, gira e rigira, più confortevole di ogni possibile aspirazione, non era essa stessa una forma di dipendenza?
A chiudere il romanzo un finale che sorprende, un riscatto parziale che consola, e una playlist dell’autore composta durante la fase di scrittura, ma piena di canzoni che Valerio stesso cita e canticchia nella testa di chi legge.
L’intervista
Nicola, ti confesso che il mio rapporto di lettrice con Valerio è stato difficile all’inizio. Quante volte avrei voluto intervenire per dirgli «Valerio ma che dici, che fai! Stai sbagliando tutto!» e poi solo in un secondo momento ricordavo che c’ero passata anch’io. Nella seconda metà del romanzo, invece, l’ho capito meglio, avvicinandomi a lui e ai suoi accorati tentativi di riparare il passato. In altre interviste hai definito la sua una «riconquista della tenerezza», che si può traslare su buona parte della generazione nata negli anni Ottanta. Quello di Valerio è un racconto generazionale di giovani (ed ex giovani) che fai definire in maniera spietata, e inconfutabile, da un personaggio in particolare, Elisabetta. Lei cita persone «cresciute nell’allegria», ma a cui «alla fine della fiera è andato tutto male», e Valerio, oltre alla disfatta, ha anche perso anche quell’ironia. Il riscatto per Valerio è “magico”, ma per te, Nicola, come si raggiunge quello stesso riscatto nella vita oltre la letteratura? Esiste una ricetta universale? E che ruolo ha l’arte nell’arginare il dolore delle illusioni disattese?
La ricetta è, credo, smettere di vergognarsi, continuando però a pensare alla vergogna. Ma anche smettere di trattenersi, di annoiarsi, di mentire su di sé e sui propri gusti. Portarsi fortuna. Ammettere che tutti cerchiamo soltanto di essere felici. La “riconquista della tenerezza”, che citavi, è centrale in questo romanzo ma anche altrove; una tendenza culturale e sociale che accomuna, oggi, molte forme d’arte. Partita dalle nuove generazioni e dalla loro enfasi, ha permesso a me e a scrittori anche più vecchi di poter liberare alcuni sentimenti sepolti, o semplicemente di sentirsi a proprio agio nello scrivere – come in questo caso – un romanzo d’amore. Perché Le tracce fantasma è a tutti gli effetti un romanzo d’amore, e non riesco a pensare a niente di più contemporaneo di un libro romantico, sulle cose private che accomunano tutti. Per quanto riguarda la seconda domanda, non lo so: da un lato, l’arte le alimenta per natura, le illusioni; dall’altra insegna a ricucire ogni ferita, perché con un romanzo, una canzone, un film, siamo cento persone diverse, impariamo ad amare e a vivere e a pensare e, a volte, a risolvere i problemi. Una soluzione non c’è, quindi, bisogna prendere tutto il pacchetto: ferita, cura, ferita, cura, ecc. In fondo, il vero scopo non è guarire ma conoscere bene il dolore.
Il ruolo salvifico della musica è evidente sin dalle prime pagine. La scelta del mestiere attribuito a Valerio e del suo passato da musicista è significativa, ma poi vai oltre e accompagni la narrazione con la musica, sia fisicamente col QR-code a fine romanzo, sia con estratti di canzoni che innescano il realismo magico del romanzo. Ci sono Ivan Graziani, da te amatissimo, ma anche gli Arctic Monkeys. Come ti è venuta l’idea della commistione di musica e letteratura e come è nato il titolo del romanzo?
Valerio è un critico musicale fin dai primissimi appunti che ho preso per questa storia, quasi dieci anni fa. Da allora sono cambiate tantissime cose, ma la musica è rimasta. Credo che dipenda, banalmente, dal fatto che la musica è il mezzo rievocativo per eccellenza, soprattutto adesso che si parla tanto di nostalgia, retrotopia e retromania. Ma è anche un modo istintivo per capire da che parte va il mondo, e quindi prevedere il futuro: Mahmood che vince Sanremo con Soldi, nel 2019, per me è una specie di anno zero del nuovo gusto, la svolta culturale più significativa in Italia – che è un Paese che prende molto sul serio le canzoni – da neanche io so quando. Potrei fare un discorso simile sulla comparsa di Björk all’inizio degli anni Novanta. Quindi, per farla breve e anche banale: la musica è una macchina del tempo. E nel mio romanzo lo è non soltanto in senso metaforico. Il titolo – che fa riferimento alle canzoni nascoste, o comunque non dichiarate, all’interno di un album – riguarda anche questo. È arrivato dopo una lunga conversazione con la mia editor, nel momento in cui ci siamo accorti che il romanzo si poneva soprattutto due domande. La prima: cosa cambierebbe, nella nostra vita, se potessimo vedere, sentire, sapere tutto, non solo ciò che emerge, delle persone che amiamo? La seconda: non saranno proprio le omissioni, i difetti, le piccole vergogne e i pentimenti, a stabilire chi siamo davvero? La stessa forma-romanzo insegna che il valore, spesso, deriva dai rifiuti, dagli scarti, dalla sottrazione.
La struttura di “Le tracce fantasma” è complessa, sia a livello di intreccio che in termini di stile. Nello stile si spazia dal tono poetico nella prosa, soprattutto nel rimuginare di Valerio, agli articoli di critica musicale, passando per chat, messaggi ed estratti di podcast, elementi che rendono il romanzo estremamente contemporaneo; nell’intreccio, invece, si fa i conti una complessità inattesa che brilla soprattutto nella terza e quarta parte del romanzo. Come si è sviluppato il tuo lavoro di scrittura per trovare il giusto tono, dare forma al protagonista e, banalmente, incastrare tutti i dettagli della storia? Quanto scrive, riscrive e taglia uno scrittore?
So che forse è una risposta deludente, ma dipende. Da romanzo a romanzo, da periodo a periodo. La cosa che temo di più, in generale, è il rimuginio, quando hai un’idea, una frase, una scena in mente e non riesci a darle forma; ma stavolta sono stato paziente, e uno dopo l’altro i nodi si sono sciolti tutti, in autonomia. Infatti a Le tracce fantasma ho lavorato tanto – l’ho riscritto quattro o cinque volte per poi arrivare, con la fase dell’editing, fino a sette stesure, se non sbaglio – senza mai stravolgerlo davvero. È stato un bel percorso, importante, di scoperta e di libertà: era tutto così cupo, fuori, mentre scrivevo, che mi sono imposto di non castigarmi ulteriormente e di non scrivere una storia castigata, troppo prudente. Motivo per cui lo stile è polifonico, i tempi si affastellano, i personaggi sono tanti e si muovono piuttosto rapidamente fra tragedia e commedia. Volevo che le imposte del mio immaginario fossero spalancate.