Alzai gli occhi per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze. Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco.
È questo l’incipit folgorante de Le ragazze, romanzo d’esordio della ventisettenne scrittrice californiana Emma Cline. Pubblicato in Italia da Einaudi Stile Libero alla fine di settembre ma preceduto da un hype senza precedenti e un’asta per la pubblicazione che la Penguin-Random House è riuscita ad aggiudicarsi con un contratto, pare, di ben 2 milioni di dollari.
Niente male per una ragazza nata e cresciuta a Sonoma, contea della San Francisco Bay Area, con poco più di diecimila abitanti, nota soprattutto per le attività vinicole. In un piccolo borgo che risente ancora fortemente del periodo coloniale messicano, Emma cresce con due fratelli e ben quattro sorelle all’interno di una famiglia benestante (la Cline Cellars è l’azienda vinicola di famiglia). Una formazione affidata prima agli studi in arti visive del Middlebury College quindi, dopo il trasferimento a New York nel 2011 alla Columbia University, a quelli in Letteratura e Scrittura creativa. Nel 2013 un suo racconto, Marion, su una bambina che cresce all’interno di una comune, viene pubblicato sulla Paris Review. È da questo racconto che nascerà Le Ragazze.
Con i suoi lineamenti delicati, un fisico etereo e il suo sorriso enigmatico, Emma Cline ha qualcosa di poco rassicurante. Dà la sensazione di essere sempre altrove, sospesa da qualche altra parte, lontana dal presente, in un mondo costruito dentro di sé.
Le ragazze racconta dell’adolescente Evie Boyd cresciuta nella San Francisco degli anni sessanta in una famiglia benestante ma sull’orlo del baratro affettivo. Una madre integrata negli schemi ripetitivi e ovattati del suo mondo privilegiato, un padre che andrà via presto a vivere con un’altra donna fino a quel momento punto di riferimento femminile della piccola Evie. Un giorno in un parco, Evie è attratta da un gruppo di ragazze, dalla loro diversità, dal loro sembrare adulte e, sopra ogni altra cosa, libere. Un furgoncino nero le verrà a prendere e si allontanerà.
Quel furgoncino nero è il mezzo attraverso cui il male è entrato senza preavviso nell’innocenza degli Stati Uniti d’America. La Summer of Love, l’amore libero, centinaia, migliaia di ragazzi e ragazze scappati di casa con una sola direzione: la San Francisco di Timothy Leary, dell’LSD e degli allucinogeni, tra Grateful Dead e Jefferson Airplane sulle tracce del grande sogno della controcultura.
Un sacco di giovani scappavano di casa: all’epoca lo si poteva fare anche soltanto per noia. Non serviva neppure una tragedia.
Più grande è il sogno più doloroso è il risveglio: il furgoncino nero apparteneva ai membri della comune hippie fondata da Charles Manson che nella notte tra l’8 e il 9 agosto del 1969 si introducevano a Cielo Drive, la tenuta di Roman Polanski, trucidando orribilmente cinque persone tra cui la moglie del regista, la bellissima attrice Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza.
Non appena mi cadde l’occhio sulle ragazze che attraversavano il parco, la mia attenzione restò fissa su di loro. Quella dai capelli neri con le sue accompagnatrici, la loro risata un rimprovero alla mia solitudine. Stavo aspettando che succedesse qualcosa, senza sapere cosa. E poi ecco.
Evie non è affascinata in maniera indistinta da tutte le ragazze e il suo ingresso nella comune non è mediato dal fascino inquieto del capo ma da Suzanne, contraltare letterario di quella Sexy Sadie cantata dai Beatles nella quale erroneamente Charles Manson, nel suo delirio narcisistico, intravedeva una delle sue ragazze, Susan Atkins, convinto com’era che Lennon & Co. gli parlassero attraverso le loro canzoni. È per seguire lei che Evie si ritroverà nel ranch di Russell Hadrick.
Nella sua roulotte con le mani di Russell tra le sue gambe vergini sarà a Suzanne che rivolgerà i suoi pensieri. A casa del musicista/produttore Mitch (Manson era entrato davvero nella vita di un musicista, Dennis Wilson dei The Beach Boys che, spaventato dalla personalità di quel piccolo e carismatico hippy, arrivò a lasciargli casa per non restare in sua presenza) quando finirà (per volere di Russell) nel suo letto, è tenendo tra le sue mani quelle di Suzanne che proverà a illudersi che quella cosa lì, quella violenza, quell’abuso possano essere un’altra faccia dell’amore.
A raccontare la storia è una Evie di mezza età che ormai fa la badante e si prende cura (quasi a voler nascondersi dal mondo) della casa abbandonata di un amico. È qui che, con l’arrivo del figlio del proprietario insieme alla fidanzatina debole e arrogante, Sasha, tutti i ricordi torneranno a galla con tagliente amarezza data dalla consapevolezza che ogni tentativo di nascondersi sarà sempre destinato a fallire, perché quella di cui ha fatto parte non è una setta come le altre ma si è trasformata nel tempo, grazie alla musica, al carisma del suo leader e ai personaggi coinvolti, in un fenomeno pop. Evie non potrà mai liberarsi: non della colpa (per un caso fortuito o per volontà altrui non ha partecipato alla strage) ma del dubbio terribile di cosa avrebbe fatto se anche lei si fosse trovata quella sera nella casa al mare di Mitch.
Ed è qui che il contesto sparisce perché mentre si procede nella lettura di una prosa di levigata bellezza e misurata attenzione ai particolari, ci si accorge che la storia (ambientata nel 1969) parla a un tempo presente e infinito perché racconta dell’adolescenza di una donna e dello sguardo attraverso cui le donne sono osservate. Sguardo che, inevitabilmente, diventa quello forzato che useranno anche loro per guardare se stesse e il mondo che gli gira intorno.
A quell’età ero, prima e piú di tutto, una cosa da giudicare, il che in ogni rapporto alterava le dinamiche di potere a favore dell’altra persona.
La fuga impossibile che Evie compie in questo che verrebbe da definire come un romanzo di formazione degli anni duemila (proprio per questo di una formazione irrisolta e irrisolvibile) è una fuga da una dimensione culturale che, abbandonate le case della buona borghesia da cui proviene (non a caso nel romanzo saranno saccheggiate, violate) si riproduce amaramente tra la sporcizia e il degrado (fisico che rimanda inevitabilmente a quello morale ben più grave) del ranch dove anche la comune della family vede in ultima istanza, nelle tante ragazze che la abitano niente più che semplici figure sottoposte al volere del maschio dal quale sono attratte per accorgersi troppo tardi (e a volte nemmeno quello) di essere strumenti di potere servile, di soddisfazione sessuale fino a sfociare nel delirio omicida. E anche quando qualcuna di loro avrà le briciole di quel potere saprà usarlo solo per dominare le altre piegandosi, inconsciamente, a una legge che è solo maschile.
È proprio nel confronto con la giovane Sasha che i ricordi emergono ancora una volta attraverso lo specchio violento della presenza maschile. Trent’anni dopo i fatti, sarà, infatti, il giovane scapestrato Julian che, infastidito dalle sue premure verso Sascha (che assomigliano a un goffo e per questo fallimentare tentativo di essere adulta) a rinfacciarle l’appartenenza alla family come un peccato originale senza possibilità di redenzione. La debolezza di Sasha, il suo cercare di essere adeguata alle aspettative dei maschi è il colpo in faccia che riapre in maniera violenta le ferite del passato.
Le ragazze è un romanzo dominato dalla profonda e delicata nostalgia che Evie prova non per i tempi andati (anzi la Cline sembra dirci che poco di quella stagione così mitizzata merita davvero di essere rimpianto) quanto per una fase della propria vita in cui iniziava a vivere quando c’era ancora la possibilità di fare in modo che le cose andassero diversamente. Che l’innocenza non dovesse essere pagata così a caro prezzo. Non c’è più la family, non ci sono più San Francisco e i giovani accorsi in massa a Haight-Ashbury. C’è invece l’adolescenza di noi tutti e di tutti noi c’è il passato. Sasha è il passato che ritorna col suo carico di “un’improvvisa nostalgia per i modi discreti con cui stava sicuramente cercando di far fronte alla solitudine”.
Il rapporto con Sasha, opportunità improvvisa e insperata di una nuova amicizia/amore al femminile, dura lo spazio incontaminato di una notte lontana dai maschi in cui una donna e una ragazzina provano con la fantasia a “colorare quegli spazi bianchi di delusione”, il solco profondo tra le aspettative di una ragazza e la realtà del suo posto da donna nel mondo.
Dell’adolescenza, soprattutto nel ricordo di quell’estate, emerge però anche netta la prepotenza del voler piegare ogni cosa al proprio stato d’animo.
Avrei voluto che il mondo intero si riorganizzasse in maniera visibile attorno a quel cambiamento nella mia vita, come un rammendo che segna il punto di uno strappo.
È così che Le ragazze si fa racconto molto forte e allo stesso tempo capace di sfumature attentissime di quell’età in cui si ha l’immaginazione per dominare il mondo e la vita che pulsa sulla sua superficie senza avere ancora la forza per poterlo fare; finendo così facilmente dominati dalle aspettative degli altri, siano esse quelle genitoriali o quelle di una famiglia di hippie. È in quella frattura che nasce e muore l’adolescenza ed è in quella frattura che è rimasta Evie. È nel suo racconto, di adulta che non è cresciuta, che filtrano raggi di luce a illuminare il senso di una stagione, in questo caso anche sociale e politica, che ancora oggi, come tutte le utopie, sembra aver perso davvero poco della sua forza.
Il ranch dimostrava che si poteva vivere su una frequenza meno banale. Che si potevano superare quelle meschine fragilità umane per attingere a un amore più grande. Credevo, con la convinzione degli adolescenti, nell’assoluta giustizia e superiorità del mio amore […] questa rete di reciproca presenza che era fin troppo vicina per identificarla. Solo la sensazione di essere tenuti tutti a galla dalla stessa corrente di fraternità, il senso di appartenenza.
Leggere Le ragazze significa aspettarsi una storia ispirata all’epopea tragica di Manson e accorgersi, senza alcuna delusione, di avere tra le mani un bellissimo racconto capace di portare alla luce le vulnerabilità e le fragilità che come spettri infestano “il mondo nascosto che abitano gli adolescenti”.
Vulnerabilità e fragilità da cui nessuno di noi può dirsi veramente libero. Sono con noi, ci accompagneranno sempre a ricordarci cosa volevamo diventare e cosa avremmo potuto fare. Cosa non siamo diventati e cosa non abbiamo invece fatto.
Suzanne e gli altri per me sarebbero esistiti sempre; ero convinta che non sarebbero mai morti. Avrebbero continuato ad aleggiare per sempre sullo sfondo della vita normale, girando intorno alle autostrade e ai margini dei parchi. Mossi da una forza che non si sarebbe mai spenta o rallentata.
È sempre difficile il rapporto con un libro di un nuovo autore, lo è ancora di più se questo è il primo e tutto si complica quando alle spalle si è mossa la grande macchina commerciale della promozione. È innegabile l’aspetto coinvolgente del racconto e encomiabile la capacità di rapportarsi a un’epoca non vissuta usandola come pretesto per un racconto universale (volendo sospendere un giudizio malizioso). Così com’è impossibile non notare la levità della sua attenzione capace di posarsi su piccoli particolari, anche di quegli anni, che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi e che sembriamo vedere solo attraverso il suo racconto. Non si può non notare però che, in alcuni passaggi, la scrittura, sempre in equilibrio perfetto, sembra a volte farsi manieristica, zuccherosa, appiccicosa, come se a scriverla fosse stata una di quelle penne profumate così in voga tra le adolescenti degli anni ottanta e domandarsi allora quanto di questo sia casuale (e in questo caso correggibile) e quanto invece frutto di una scelta precisa di lavorare su nuances linguistiche proprie di quell’evoluzione femminile nella mente e nel corpo, quel cominciare a riconoscersi quasi forzatamente in una donna in un passaggio che non è mai graduale ma che, procedendo per strappi brutali, lascia brandelli di pigiami con i pupazzetti da infanti su seni che cominciano a crescere e gambe che si scoprono.
Non c’è da gridare al capolavoro e appaiono forzati e fuori luogo i paragoni con autori del calibro di Thomas Pynchon. Ma il talento della narrazione c’è e non è poco. Resta da capire se Emma Cline riuscirà a smarcarsi dalla confezione commerciale che le hanno cucito addosso (lei che è anche editor narrativa del New Yorker). Se, cioè, sarà in grado di far emergere il suo talento in maniera per certi versi più grezza e immediata senza quella palpabile ansia nella ricerca dell’effetto e nella bellezza del gesto.
La risposta a questa domanda, che verrà col tempo, non è certo superflua: è il margine sottile che potrà separare Emma Cline dall’essere una grande incantatrice (cosa che ha già dimostrato di essere) all’essere una grande scrittrice.