Kent Haruf: scrivere anche in fin di vita

Kent Haruf, scrittore americano tradotto in Italia da NN editore, scrive Le nostre anime di notte in fin di vita. Sa che è malato, sa che potrebbe trascorrere il tempo in due modi: affliggendosi in una stanza o concentrando le energie su una nuova storia. Sceglie la seconda strada perché è quella che gli infonde più sicurezza, quella che conosce meglio. Il risultato è un romanzo puro, importante e che da settimane sta riscuotendo successo tra i lettori.

Di Kent Haruf NN editore, casa editrice indipendente, ha già pubblicato La trilogia della pianura e ha progettato di proporne tutti i romanzi. La voce italiana di questo scrittore delicato ed essenziale è Fabio Cremonesi che abbiamo avuto modo di ascoltare in occasione di una presentazione de Le nostre anime di notte presso la libreria Ubik di Modena. A detta di Cremonesi aleggia sul romanzo un’atmosfera di urgenza, come se i personaggi sapessero che il tempo a disposizione è limitato. Il rispetto per questa sollecitudine espressiva ha spinto gli editori a riportare nell’edizione italiana alcune lievi imprecisioni stilistiche: in questo modo il lettore ha la misura dell’opera, senza trucchi o compromissioni.

I protagonisti, Addie e Louis, sono una donna e un uomo sulla settantina. Hanno vissuto più della metà della loro esistenza a Holt, una cittadina dal carattere posticcio, provinciale. Prendono a dormire insieme la sera per un’idea di Addie, ormai sola dopo la morte del marito e l’allontanamento del figlio. La proposta di Addie non ha a che fare col sesso: è piuttosto una richiesta d’aiuto ad un uomo che sente vicino e che potrebbe tenerle compagnia per i giorni a venire. Louis resta meravigliato da tanta intraprendenza, tuttavia si lascia avvolgere dal calore e dall’umanità accogliente di una donna che non è avvizzita ed è ancora capace di cogliere la bellezza di un incontro e le sfumature del vivere. Ci mette poco la gente a mormorare, ma Addie e Louis se ne infischiano: arriva sempre un momento nella vita, specie quando hai percorso un bel po’ di strada, che riesci ad ignorare il pensiero dominante e a fare proprio quel che ti va di fare. Addie e Louis si aggrappano l’una all’altro e si incontrano dentro le parole. Mettono in pratica il trucco di Sherazade che procrastinava la morte col racconto. Se esiste una fine del corpo ed una dello spirito, e possono essere anche non coincidenti, Addie e Louis riescono ad esorcizzarne almeno una. Dovranno fare i conti con i fantasmi del passato e le pretese dei loro cari, che non capiranno la loro scelta.

Macchina da scrivere di Haruf

 

“E allora parla con me, rispose lei.

Di qualcosa in particolare?

Qualcos’altro su di te.

Non ti sei ancora stancata?

Ancora no. Quando succederà, te lo farò sapere.”

Parlare diventa un’azione terapeutica, un processo maieutico che avvicina Addie e Louis ad una qualche verità, la loro. Nella dimensione dell’intimità il tempo, la fretta, l’ansia, lo svilimento subiranno una battuta d’arresto: la complicità è lo scudo, uno specchio dove guardare riflesse le brutture senza averne paura. Una dichiarazione d’amore universale, un lascito per chi vorrà e potrà comprenderne il senso. Qualcosa che, comunque, Haruf ha avuto la fortuna di conoscere e il coraggio di attraversare. Prima di morire promette alla moglie Cathy che avrebbe scritto un libro sulla grandezza del loro sentimento. Rispetta i patti. Dopo poche settimane dalla consegna del libro al suo editor, Haruf muore. Cremonesi stesso gli scrive senza ricevere risposta. Triste epilogo, certo, ma sarebbe più triste non poter leggere questo libro già incoronato classico della letteratura.

 

 

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