È possibile che qualcuna di quelle che videro svolgersi l’incidente abbia gridato, che una o più donne siano scese per la scala di corsa, ma la morte finisce sempre per imporre il suo silenzio su chi la contempla.
Pubblicato nel 1977, Le morte di Jorge Ibarguëngoitia, fu ispirato da uno scioccante fatto di cronaca nera avvenuto una ventina di anni prima nello stato di Guanajuato, dove lo scrittore messicano era nato nel 1928.
Lì, le sorelle Delfina e María de Jesús González Valenzuela divennero presto il nome di punta tra le pagine di cronaca nera della stampa dell’epoca quando venne alla luce che le due donne avevano per anni comprato con l’inganno ragazzine per costringerle a prostituirsi nei tre bordelli di cui erano le tenutarie, sottoponendole a una disciplina ferrea e a ogni tipo di privazione e violenza. Non solo: dopo l’improvvisa proibizione della prostituzione da parte del governatore dello stato, le Poquianchis (le «puttane») segregarono le ragazze che non erano riuscite a rivendere a terzi in una masseria isolata; qui continuarono gli abusi, le manipolazioni, le torture fino al disvelamento – in seguito all’irruzione della polizia, nel 1964 – di un vero cimitero nel giardino dell’edificio dove erano state sepolte decine di prostitute morte perché affamate, picchiate o addirittura uccise a colpi di fucile.
Le morte torna dopo molti anni in libreria nella traduzione di Angelo Morino per La Nuova Frontiera e restituisce tutta l’asciuttezza di un romanzo cui l’autore aveva lavorato – raccogliendo materiale – per una decina d’anni. Più che trentenne all’epoca dei fatti narrati, Ibarguëngoitia si tiene lontano da una non fiction ante litteram e fin dall’epigrafe – «Alcuni dei fatti qui narrati sono reali. Tutti i personaggi sono immaginari» – restituisce il senso di un’operazione squisitamente letteraria. La scrittura del romanziere messicano, autore d’importanti libri nella storia della letteratura latinoamericana del Novecento, si allontana dall’idea imperante di un Sudamerica realisticamente magico o barricadero, per offrire al lettore una scrittura attenta, ispirata, dominata da un talento raro per la messinscena e l’elemento narrativo, dentro la quale spicca l’acuta analisi delle condizioni sociali che abbracciano i personaggi, con più di un pizzico d’ironia e sagacia.
Le morte, infatti, nonostante il nome – e fin dalla bella copertina dell’edizione italiana – è un romanzo che poco concede ai canoni più stringenti del noir, lasciandosi andare a toni grotteschi, financo allegri, da commedia popolare. La cornice che Ibarguëngoitia costruisce è affidata a un incipit esaltante in cui quattro loschi personaggi alla guida di un’auto (Serafina Beladro, il capitano Bedoya, l’Escalera e il prode Nicolás) si rendono protagonisti di una surreale quanto assurda vendetta che culmina con una sparatoria – tarantiniana ante litteram – all’interno di una panetteria; e sarà proprio la testimonianza del panettiere Simón Corona, vecchia conoscenza delle sorelle Beladro a dare il la a una sinfonia di testimonianze e racconti che, in una meravigliosa spira narrativa, condurrà al disvelamento dei fatti. Costruito, infatti, quasi col tono di una secca indagine di polizia, Le morte si trasforma, pagina dopo pagina, in un affascinante calembour che svela e nasconde, che racconta la storia passata procedendo nel presente, per narrare – ed è un elemento chiave nella ragion d’essere del romanzo, di là dalla sua assoluta godibilità – le ipocrisie di un’intera società.
Dietro un andamento che mescola dialoghi d’impianto quasi teatrale, interrogatori e testimonianze, monologhi e trafiletti di giornale, lo scrittore messicano lascia salire a galla, come una melma dal fondo, lo stato eterno di corruzione del suo paese. Perché se è vero che le due sorelle comprano, in un mercimonio senza scrupolo, la vita e la virtù di giovani donne, è pur vero che ci sono famiglie disposte a vendergliele, e tanti cittadini perbene che affollano i bar e le stanze del Casino del Danzón come del México Lindo e della Casa del Molino. Le stesse “ragazze” non sono certo estranee a comportamenti che le portano a macchiarsi ripetutamente di cattiverie, invidie e prevaricazioni, mentre i poliziotti sono corrotti e non si limitano ad assistere, diventando talvolta parte attiva dei crimini. Sullo sfondo si muovono silenziosi politici e giudici che intascano mazzette sottobanco, mentre su tutto si stendono, come un velo, i giudizi superficiali e ipocriti dell’uomo comune. Ecco allora che il bersaglio di Ibarguëngoitia non sono le due sorelle – da notare l’ironia dei nomi scelti: Serafina e Arcangela – e la loro terribile condotta, ma la società che non solo le ha – in una certa misura – prodotte (per l’intero racconto non appaiono mai come delle serial killer dominate da passioni e istinti incontrollabili, piuttosto come donne d’affari, fredde e calcolatrici, così legate al loro interesse da mostrarsi spietate per difenderlo o preservarlo) ma che le ha trasformate poi, in un’ossessione mediatica e superficiale in anticipo sui tempi (e stupisce e fa sorridere, certamente, questa visione così contemporanea per un libro scritto prima dell’esplosione della televisione e della rete) denunciando uno spaventoso – questo davvero sì – gigantesco vuoto etico.
A dominare la narrazione, l’umorismo corrosivo che lo avvicina ai grandi autori inglesi dell’ottocento e che lo aiuta a stemperare una materia che, nonostante il tema, non risulta mai macabra né greve in alcun modo.
Vincitore nel 1964 del premio Casa de las Américas per il romanzo I lampi d’agosto, assegnatogli da una giuria nella quale sedeva anche il nostro Italo Calvino – che è facile intuire entusiasta per la capacità dello scrittore messicano di saper giocare con diversi registri stilistici – Ibarguëngoitia tornò più volte su una “nostra storia [che] è oscura e sanguinosa” al punto tale che nelle violenze subite dalle lavoranti del bordello, da quel cimitero di corpi nel cortile del Danzón sembra quasi cogliere prodomi lontani della Santa Teresa del futuro Roberto Bolaño di 2666.
Non quella violenza colpì Ibarguëngoitia, ma alla sua vita pose fine – prematuramente, a cinquantacinque anni – il disastro aereo del volo Avianca 011 che da Parigi, dove si era stabilito, doveva portarlo a Bogotá per un festival letterario organizzato da Gabriel García Márquez (e nel quale morirà, tra gli altri, anche lo scrittore peruviano Manul Scorza) non prima, comunque, di aver lasciato ai lettori – a lui contemporanei e a noi posteri – romanzi in cui emerge integro il gusto della scrittura e di uno sguardo acuto ma sempre leggero sulle storture del mondo.