Le fotografie sono a cura di Alise Blandini
Sono tre anni che non parlo de Le luci della centrale elettrica e se, come immagino, questa notizia è superflua per gran parte delle persone non lo è per me e per qualcun altro. Forse perché è nella nostra abitudine a sopravvivere allontanare il più possibile quel momento in cui, improvvisamente, capisci che ciò che non sembrava poter passare invece appartiene già ad altri riferimenti, altre storie e, in fondo, a un’altra persona, quella che eri e ora non sei più. Mi sento in dovere, per una volta, di chiedere un certo tipo di clemenza a chi legge, per il discorso che sto per fare. Se è vero che le nostre storie personali sono fatte soprattutto di piccoli significanti collettivi, permettetemi di sfruttare questa occasione per ragionarci un po’ su, dare un abbozzo non necessariamente esaustivo su come Piromani, e tanti altri aspetti dei brani di Vasco Brondi, siano già produttori attivi di nostalgia romantica. Chi ci pensava, tempo fa, che saremmo diventati poi noi questi qua, nonostante fossimo stati avvertiti.
Partiamo da una discriminante fondamentale. Terra è un disco che ho ascoltato poco, per tutte le ragioni di cui sopra. Forse l’abbandono tardivo all’adolescenza, l’impatto devastante con la maturità che ti porta ad accantonare, come nei rapporti con una dipendenza tossicologica o affettiva, ogni cosa che ti potrebbe riportare indietro. Forse non siamo nemmeno mai stati gli adolescenti che credevamo e i vuoti che abbiamo pensato di aver riempito si trovano ancora lì, nello stesso punto.
Guardarsi tre anni dopo a un concerto di Vasco Brondi significa potenzialmente capire tutto e accorgersi di non aver capito mai nulla, da Costellazioni in poi. Il percorso brondiano di dis-velamento, dalla nebbia e ritorno, e dell’apertura al mondo si era manifestato già con l’album del 2014, col suo approccio dal vivo diverso ma è con Terra, ora possiamo comprenderlo, che sembra aver raggiunto quel dichiarato centro di gravità momentaneo. Superare un tratto identificativo come quello dell’autocomprensione in direzione di uno sguardo rivolto agli altri. Segno di maturità, o dei cambiamenti inevitabili di una poetica odiata fin troppo che, proprio per questo motivo, quando ha deciso di liberarsi si è ritrovata così coerente con se stessa. Dagli esordi la voce è andata man mano definendosi e il rapporto con i diversi musicisti di cui si è circondato ha ampliato in tanti tratti lo spettro sonoro. Ci siamo allontanati dalla spigolosità e dalle corde strappate, per accogliere qualcosa che ritrova nella musica il suo corrispondente più adeguato. Vederlo di nuovo a casa è quel di più, vicino alla consacrazione, che forse nemmeno noi ci aspettavamo e con cui dobbiamo, inevitabilmente, fare i conti.
Il cortile del Castello è raccolto su di sé, e dopo due tour sold out riscopriamo una versione intima, come quella con cui siamo cresciuti. Non si tratta di passi indietro, o di un album che non ha riscosso lo stesso trascinamento del precedente. Si tratta di una naturale evoluzione dell’ascoltatore, del naturale ricambio di cui noi, per la prima volta nella nostra esistenza, siamo testimoni. Terra, l’abbiamo già detto, è un album differente dai precedenti. Costellazioni non lo era così tanto, si avvertiva ancora un legame strettissimo con quella parte consacrata-dissacrata da dieci anni a quella parte, forse quell’aggrapparsi a certe risonanze di un nucleo già mutato. Nel terzetto iniziale, da Coprifuoco a Stelle Marine, c’è proprio questo, sotto i nostri occhi, una liberazione, la voglia di raccontare quel senso di responsabilità umana non necessariamente contrario a ciò che si è detto o fatto in passato. I suoni nuovi non c’entrano, riguarda una sensazione che potremmo ricondurre all’approccio e forse nemmeno a quello. È tutto cambiato ed è proprio per questo che la nostra relazione si è trasformata. Avevamo rabbia da gridare, prima, e ci serviva qualcuno che lo facesse nel modo in cui noi non riuscivamo. Lentamente siamo passati, le guerre continuano a scoppiare e mentre noi sembriamo sempre più autoescluderci da questo conto, da quest’umanità fin troppo sorda, Brondi ci ricorda il motivo per esserci, attivi, di come recuperare la speranza, quella dei figli degli anni zero a cui spetta il ruolo, ora per davvero di modificare la storia.
Siamo la riserva indiana ed è una responsabilità. Quella di raccogliere determinati consigli, per noi, per gli altri e per la storia che abbiamo vissuto. Si tratta sempre di restituire, di padre in figlio, da umano a umano, giusto? E allora ci ritroviamo lì, a rimandare l’affetto, a stringersi, ad aspettare le notti e poi i mattini ancora. Riprendendo in mano le Costellazioni e quello che chiamavamo felicità. Non ne facciamo una questione generazionale, perché la nostra generazione non è necessariamente tutta qui. Ci siamo noi, però, a recuperare quello che è passato, chiuderlo sulla pelle quando si parla dell’Emilia e poi di tutte le altre, a distanze siderali. Tutto questo, dentro a una festa. Perché non è ancora il momento di fermarsi, per quello c’è il domani, le razionalizzazioni nostalgiche, il voler trovarne un senso per non perdersi nulla.
Il momento è proprio quel Piromani dell’inizio. La via di separazione, da canto di rivolta a un’infernale ballata per cui stringersi, perché quelle luci non si sono spente e ognuno gli ha dato l’indirizzo che voleva e se non lo ritroviamo più è perché non ci siamo mai spostati.
Non ce lo saremmo immaginati, di essere qui, da quanto gli ascolti si sono ridotti e abbiamo cominciato a usare le nostre parole per riferirci a determinati stati d’animo e situazioni. Forse dall’adolescenza non si esce mai, ma come dice una cara ragazza di qui siamo delle calamite, di quelle potenti che non si staccano più.