C’è una musicalità inimitabile, nella scrittura di Emanuele Trevi. Qualcosa di invisibile e allo stesso tempo quasi palpabile, che ha una sua consistenza unica. Le parole fluttuano sulla pagina, sono lievi, eppure, hanno la capacità di addensarsi tra loro, lentamente, raffigurando emozioni vivide, fortissime. Il risultato è letteratura, pura e semplice. Il risultato è Due vite – pubblicato da Neri Pozza e vincitore del premio Strega 2021. In questo suo ultimo libro Trevi racconta di Pia Pera e Rocco Carbone. Amici dell’autore, entrambi intellettuali e scrittori, entrambi venuti a mancare pochi anni fa. E lo fa con una lucidità impeccabile, con uno sguardo autentico e intenso. Lo fa mettendoci sé stesso, ma senza mai oscurare la materia narrata: le vite di due eroi greci – così Trevi li definirà tra poco, Pera e Carbone, nel corso di questa intervista. Lo fa in un libro che è il punto d’incontro di diversi generi letterari, in un libro che è un piccolo gioiello contemporaneo.
Partiamo dal principio. Farei un errore, a suo avviso, a definire Due vite un romanzo?
Forse sì, forse no. Quando si ha a che fare con un libro ibrido, capita che l’editore lo definisca romanzo per creare un sistema di senso, di rassicurazione per i lettori. Ecco, Due vite credo possa essere definito un ibrido, in effetti. Quindi l’etichetta di “romanzo”, sia per questa ragione sia anche perché la componente narrativa è comunque presente, non è sbagliata.
In effetti i suoi libri sono spesso degli ibridi, crocevia di diversi generi letterari.
Sì, è così. E ai più, specie ai lettori meno forti, sembrano dei libri strani per questo.
Libri strani?
Prenda Sogni e favole – Ponte alle Grazie 2019, un mio libro precedente a cui tengo moltissimo. Sulla copertina l’editore voleva scrivere “il nuovo libro strano di Emanuele Trevi”, cosa che ha poi fatto in giro sul web. Pensai fossero pazzi, in casa editrice. I libri già non vendono, ci si mette sopra pure una frase del genere il disastro è annunciato.
Di definizioni ai libri, forse, non se ne dovrebbero proprio dare, insomma.
Di definizioni è anche giusto che se ne diano, per carità, ma meno strette sono e meglio è. C’è questa frase di Don De Lillo, in proposito, che mi ha sempre molto convinto. Lui dice che il romanzo è “quel che le persone scrivono in una determinata epoca della storia”. Io, che ho sempre coltivato pure forme laterali di scrittura – dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario -, trovo sia una buona definizione. Ogni epoca ha il suo tipo di romanzo.
L’idea del romanzo, nel senso più classico, non le interessa, quindi?
No, in generale direi di no.
Un esempio?
Con tutto il rispetto possibile, non mi interessa granché la narrativa di Sally Rooney, ad esempio.
Lei racconta due vite, quella di Pia Pera e di Rocco Carbone. Ma allo stesso tempo racconta due forme di vita distinte, quella fisica e della memoria. Inevitabilmente però, a mio avviso, racconta anche di una terza vita, la sua, Trevi. Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?
Tanto. Anzi, tantissimo. Devo anche dire però che se ci sono pure io, in questo libro, è soprattutto per un fatto narrativo. Se non ti ci metti anche tu, nel libro che scrivi, è difficile riuscire a rendere visibili gli altri, che siano personaggi di fantasia o meno. A me non interessava parlare di me, chiaro, non era questo il mio intento ma dovevo creare un punto di vista; quando si scrive è sempre necessario averne uno. Avevo bisogno di un paio d’occhi, per raccontare Pera e Carbone. E ho usato i miei. Quindi sì, ci sono anch’io, in questo libro, ma soprattutto come spettatore.
Nella vita fisica siamo costantemente soggetti al cambiamento. Nella vita della memoria, invece, veniamo in qualche modo modificati o siamo come cristallizzati nella mente degli altri?
La memoria ideale è un punto di equilibrio tra la dimenticanza totale e l’eccesso di ricordi. E io scrivo quando ho trovato questo punto. Scrivo quando molte foglie sono cadute ma sull’albero ne rimangono ancora. Quindi sì, è come dice lei, in effetti: nella memoria, così come nella vita, con il passare degli anni cambia tutto. Non in senso trasformativo, però, ma di sottrazione. Ricordiamo meno cose, quindi ricostruiamo e lo facciamo di nostro pugno.
A proposito del tempo. Ho trovato fosse importante nel romanzo. Secondo lei siamo costituiti, anche e forse soprattutto, dello stratificarsi degli anni?
Sì, ed è uno dei motivi per cui esiste l’arte, a mio avviso. Gli artisti sollecitano la continuità dell’Io e lo fanno costantemente. Si interrogano. Si domandano se l’Io di cui hanno memoria, che è parte della stratificazione di cui lei parla, esista ancora. Così, attraverso questa operazione, l’Io diventa una sorta di perno, qualcosa a cui il cambiamento gira attorno. Pure se è coinvolto nel cambiamento, l’Io è il perno di queste nostre stratificazioni temporali. E gli artisti lo percepiscono più lentamente, ne hanno una consapevolezza maggiore. Zadie Smith una volta ha detto che lei scrive per cercare di capire se della ragazzina che è stata è rimasta qualcosa. Per scavare nella stratificazione di cui parla lei, quindi.
Una risposta è possibile, secondo lei? Scavare, interrogarci, può portare a dei risultati?
È un’illusione. In fondo, il mondo è trasformazione. E nient’altro. Pure se l’Io, nel senso occidentale, si compiace dell’idea di persistere nel cambiamento.
Lei in Due vite parla di interminabile festa del nulla. È questo quel che ci aspetta, dopo la vita?
Secondo me, sì. Ma so bene che si tratta di un pensiero consolatorio. Il dolore che proviamo nella vita è sempre dovuto a delle mancanze. Di qualcuno, di qualcosa. E questo pensiero, l’interminabile nulla dopo la vita, mi consola: saremo tutti in una condizione in cui nessuno potrà più essere rimpianto.
Un’altra cosa che viene fuori da Due vite è una certa insoddisfazione, come se corresse lungo le pagine del libro e della storia stessa di Pera e Carbone. È esperienza umana comune?
Generalmente, forse, mi sentire di dire di sì, ma non ne sono così sicuro. Io, ad esempio, sono sempre stato molto più soddisfatto di loro, di Pera e di Carbone. Credo si veda pure da molti miei libri. Parlo di disadattati, ma da un punto di vista dell’adattamento.
Da dove trae soddisfazione, lei, Trevi?
Per me il patto con la vita è sempre stato migliore di quello dei miei personaggi. Le mie soddisfazioni le traggo da tante cose diverse, ma è proprio un fatto di patto con la vita.
Tornando a Due vite, cosa crede che ne penserebbero Pera e Carbone?
Questo è il problema dei problemi – ride, ndr. Penso che gradirebbero le intenzioni, ma che su alcune cose avrebbero un po’ da ridire.
E lei cosa risponderebbe loro?
Mi giustificherei dicendo che non volevo fare un omaggio alle persone ma alla loro forza del carattere. E c’è una bella differenza, tra le due.
La forza del carattere?
È il nocciolo di ognuno di noi, ed è costituita da pregi e difetti. Ragion per cui, quando si vuol parlare di una persona e quando lo si vuol fare raccontando della sua forza del carattere, è necessario che non ci si limiti solo agli aspetti positivi di quella persona. Pera e Carbone io li ho visti come due guerrieri greci sotto le mura di Troia ma per parlare della loro grandezza umana dovevo mettere in mezzo tutto. Sia le cose belle, sia le cose meno belle, filtrandole attraverso gli occhi dell’amico che sono stato per loro.
Nei suoi libri lei racconta spesso di rapporti di amicizia, in effetti.
Be’, il mio talento nella vita è stato sicuramente quello, l’amicizia.
Qual è la differenza con l’amore?
Nell’amore manca l’elemento della gratuità, componente fondamentale dell’amicizia. L’amore, poi, è anche qualcosa con dei forti dettami sociali, dettami che nell’amicizia mancano; appunto, qui torna l’elemento di gratuità.
Andiamo in chiusura, quindi mi conceda un paio di domande sullo Strega. Lo ha vinto, e intanto molte congratulazioni. Ma mi dica, com’è? Tempo fa lei ha detto che somiglia al Trono di spade, sia la corsa verso il Premio, sia il risultato finale. Com’è, quindi, questo trono?
Leggerissimo. Davvero. Certo, devi essere capace di sottrarti a molte cose, ma è molto comodo.
È cambiato qualcosa dalla vittoria?
In proposito, mi piace una cosa che ha detto Tiziano Scarpa dopo la vittoria: “se vinci il premio Strega, poi, per un anno sei il sindaco della letteratura italiana”. È stata una grandissima soddisfazione, questo è certo, ma forse è arrivata troppo tardi nella mia vita di autore per generare un qualche cambiamento nella mia scrittura. Ciò che è certo è che ha generato un enorme senso di gratitudine, pure nei confronti della casa editrice che ci ha scommesso tanto.
Le scarpe. Le scarpe della Lidl.
Erano intonatissime con il mio abbigliamento. Se n’è parlato più del libro, mi rendo conto, ma è che proprio mi sembrava andassero bene con i vestiti della serata.
Sono rarissime. Pezzi quasi introvabili.
Infatti ho paura d’essere derubato. Ho paura che qualcuno, prima o poi, mi rapisca per prendermele – ride, ndr. Scherzi a parte, era un tocco di assoluto cromatismo. Almeno, così ho pensato. Ma sui social come sono state prese? Non ce li ho, i social, però la faccenda mi incuriosisce molto.
Sui social sono state parecchio apprezzate.
Be’, menomale. E poi stavo comodo, aldilà dell’accordo cromatico. E la comodità è fondamentale, in tutto.