«Volevamo espanderci ed essere sfamate; volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche, tutto il tempo». Espansione, fame, desiderio: esiste una strana correlazione tra il corpo femminile e lo spazio che gli è concesso di occupare. Quando lo spazio fisico del corpo è ridotto – prendendo le forme di donna esile, scarna, ossuta – il corpo stesso simboleggia e combacia con uno spazio sociale più ampio, più conforme alle norme prestabilite. Al contrario, più la figura si allarga più lo spazio sociale si riduce. La fierezza dei corpi magri e sinuosi, l’inadeguatezza della carne: ciò che è socialmente accettabile, ciò che non lo è. È di questo che si discute ne Le Divoratrici, il romanzo esordio della scrittrice inglese Lara Williams, pubblicato in Italia da Blackie Edizioni.
Il titolo del libro in lingua originale – Supper Club – è ancora più calzante rispetto alla sua traduzione italiana. Una società segreta, un collettivo per donne, dove essenzialmente ci si incontra per mangiare e parlare. L’essenza del cibo e le sue conseguenze sociali sono sviscerate nel modo in cui il confine tra piacere e disgusto è labile, difficile da tracciare in una qualche misura. È tuttavia, il loro club, un posto sicuro dove aprirsi, allargarsi, venire a patti con la vulnerabilità di essere carne. È significativo che tutte le partecipanti nel corso di questi incontri ingrassano e i loro corpi iniziano a somigliarsi nelle forme morbide e rotonde: un senso di liberazione e di democrazia, una parità dei corpi che le unisce, secondo le stesse parole di Williams.
Lara Williams parla nel suo primo romanzo della riappropriazione del corpo femminile, il quale è storicamente oggetto di discussione pubblica, per non dire proprietà pubblica. Tratta di donne che rivendicano i loro appetiti in senso universale: dello spazio che occupano, dei desideri sessuali, di libertà incondizionata svincolata da freni inibitori di qualsiasi genere. «Niente fa più paura di una donna che mangia e scopa con abbandono», dice l’autrice quasi come una sorta di slogan. La fame è un modo per reclamare la propria fisicità, esistere in degli spazi che non sono costruiti e/o pensati per le donne. Non si tratta solo del rapporto con il cibo, il quale è un argomento complesso che ha bisogno di una certa sensibilità per essere analizzato, ma della richiesta incessante della società alle donne di rimpicciolirsi in una vastissima gamma di sfumature e situazioni. A misura e gusto d’uomo, ça va sans dire. Se la società ti vuole piccola, allora tu allargati, ingrassa. Se lo spazio non c’è, pretendilo e appropriatene con forza. Sarebbe molto semplice chiosarla così, ma sarebbe molto lontano dalla realtà. Ci sono delle implicazioni psicologiche enormi che la fisicità femminile si porta dietro a causa di costrutti sociali sessisti e patriarcali, che hanno dettato le norme e le misure fin da quando se ne ha memoria.
Siamo alla stregua della diet culture, secondo la quale alla magrezza corrisponde il successo sociale, l’approvazione da parte dello sguardo esterno, uno sguardo che non esclude genere, ma lo ingloba del tutto. Una cultura altamente tossica, di cui però siamo figli e continuiamo a perpetuarla nelle sottigliezze, nell’atteggiamento ossessivo verso i body goals. La diet culture impone per l’appunto che il rapporto con il proprio corpo sia scandito da goals – da obiettivi da raggiungere. La magrezza si fa da status symbol di salute, benessere e virtù morale: è l’incarnazione (mai parola fu più azzeccata, farsi carne) degli ideali massimi a cui aspirare, che inevitabilmente, dall’altro lato della medaglia, demonizza chi non ne è provvisto. Se ci sono degli obiettivi da raggiungere, allora c’è anche un metro di giudizio tramite il quale essere valutati. La cultura della dieta posiziona noi e il nostro aspetto fisico su una scala di valori; fa leva su tutte le nostre paure, incertezze e problemi che sono capaci di riempirci e svuotarci con una costanza sconcertante. È in realtà un circolo vizioso, è il lievito madre delle nostre insicurezze: è questo modo di pensare che le genera e nello stesso tempo le alimenta.
Il punto è che per una donna sentirsi piccola, impotente, inadeguata è cosa di tutti i giorni. La tristezza della normalità. L’autrice sfiora una molteplicità di tematiche che riflettono questa incapacità di movimento: dal mansplaining, all’elevazione sociale che una relazione romantica comporta; dalla critica all’individualismo ai traumi e alle violenze fisiche. Colpisce di questo romanzo la malleabilità a cui come donne siamo abituate, fino a che punto ci spingiamo per conformarci all’ideale che gli altri hanno di noi, per compiacere e dispiacere noi stesse. È la modalità con cui si oppone resistenza che emerge. Una reazione sovversiva che ti sfama, in tutti i sensi.