Ogni notte le trans riemergono da quell’inferno di cui nessuno scrive, per restituire la primavera al mondo
Pubblicato il 1 marzo 2019 in Argentina da Tusquets Editores, Las Malas della scrittrice Camila Sosa Villada arriva oggi sugli scaffali delle librerie italiane per la casa editrice Sur.
Le cattive – traduzione di Giulia Zavagna – racconta in una forma ibrida – romanzo, memoir, confessione – la storia di un gruppo di giovanissime ragazze trans che, alla fine degli anni novanta, animavano la vita notturna del Parco Sarmiento nella città argentina di Córdoba; gruppo del quale faceva parte la stessa autrice, nata a La Falda nel 1982, un passato da prostituta, venditrice ambulante, donna delle pulizie quindi, dopo gli studi di Comunicazione e Teatro, al centro di una carriera artistica come attrice e cantante fino a diventare, oggi, una delle nuove voci letterarie più dirompenti del panorama argentino.
Non ci sono mai stati poliziotti né clienti né crudeltà che mi facessero paura quanto mio padre. A onor del vero, credo che anche lui provasse una paura spaventosa nei miei confronti. È possibile che il pianto delle trans abbia origine proprio da questo: il terrore reciproco fra il padre e la giovane trans. La ferita si apre al mondo e le trans piangono.
Le cattive è – a suo modo – un racconto di formazione grazie ai flashback di Sosa Villada che danno profondità temporale alla storia, recuperando la sua infanzia e la sua adolescenza nel piccolo paesino di Mina Clavero prima dell’arrivo nella città dove di giorno studierà all’università e di notte si prostituisce come un angelo caduto che sorvola due patrie. Ed è proprio questo uno dei primi tratti che emerge da queste pagine: il contrasto tra la luce del giorno e le tenebre della notte, scenari di una vita spezzata a metà, contraltare e prezzo da pagare a un desiderio che invece ambisce a essere tutto, prima di ogni altra cosa se stessi.
Quando comincio a sbocciare, prego perché durante la notte mi crescano le tette, perché i miei genitori mi perdonino, perché mi nasca una vagina tra le gambe. E invece no. Tra le gambe ho un coltello.
Ripudiata dai genitori, Camila trova a Córdoba la sua vera famiglia, nella casa rosa di Zia Encarna – “Dea dai piedi di fango e le mani da pugile” – personaggio umano e letterario straordinario, madre putativa di un neonato trovato abbandonato in un fosso del Parco che lei finge di allattare al prosperoso seno gonfio di silicone e dozzinale olio motore. Maria la muta, Angie, Sandra, Natalí, Patricia, La Machi sono tutte sorelle di Camila, che è abilissima con la sua voce leggera a dare vita a un amarcord delicato, struggente e allegro che racconta di un universo femminile dominato ogni giorno dalla precarietà e dalla violenza; quella della miseria e della solitudine, quella degli sguardi indiscreti del mondo borghese, quella drammaticamente tangibile di clienti e forze dell’ordine. Non risparmia niente nel suo racconto Sosa Villada, la sua è una rappresentazione incredibilmente onesta che non fa sconti al suo mondo e alla sua stessa vita: Le cattive è un ritratto dolceamaro di una casa di orfane, di donne a loro modo disperate eppure mosse da un istinto di vita straordinario che le rende – tra loro e con il lettore – complici in una natura fragile e determinata a un tempo.
Ecco cosa volevo per me. Lo sconcerto del travestitismo. Il disorientamento di quella pratica. Fu tale la rivelazione che, contro vento e marea, anch’io mi lasciai crescere i capelli, e mi scelsi un nome da donna e ascoltai, a partire da allora, la chiamata del mio destino.
Camila Sosa Villada racconta di sé, della sua famiglia, della sua educazione sessuale prima che sentimentale, di un ancora giovane adolescente che conosce prestissimo la sua natura e la persegue spinta dal desiderio e dalla curiosità. Che abborda i camionisti nelle strade di periferia per conoscere il sesso prima, quindi se stessa, che non nasconde come la strada della prostituzione sia stata per lei una scelta più che il destino di una donna affascinante, intelligente e colta che è passata attraverso l’inferno prima di imparare ad amarsi.
Racconta Camila – senza nascondere – una storia insieme personale e collettiva che trasuda passione e rivendicazione di una natura che non ha da vergognarsi, che anzi fa della sua peculiarità un punto di forza; e lo fa con la naturalezza della sua personalità, con la semplicità delle sue emozioni, trascinando il lettore nel turbinio di un parco notturno descritto “come un ventre voluttuoso, un recipiente di sesso senza vergogna” mentre lei e le sue compagne sono “un’invasione di zombi che avanzano affamati”, “indie dipinte per la guerra, bestie preparate a cacciare gli imprudenti che si avventuravano di notte nelle fauci del Parco, sempre incollerite, troppo ruvide perfino per la tenerezza, imprevedibili, pazze, risentite, velenose”.
Tutto è specchio: cerco la violenza, la provoco, sono immersa nella violenza come in una fonte battesimale. Sono una prostituta che cammina per strada di notte quando le donne della mia età dormono nel loro letto. Cammino per strada, compresa nei piani della violenza ma anche nei piani del desiderio.
Le cattive è – insieme a tutto il resto – una storia di ostinazione, d’identità; è un viaggio profondo dentro i meandri anche oscuri della propria fragilità e dei propri desideri. Uno dei meriti della narrazione di Sosa Villada è in quest’accettazione totale di un mondo che le ha dato una seconda vita – quella autentica – e del quale non rifiuta niente, per amore certamente, ma anche e soprattutto perché nei difetti – ma è forse il mio un termine fin troppo ambiguo – cui pure sa di appartenere, riconosce il valore di un’umanità bellissima e disarmante così come nella violenza sa intuire il senso di un’accondiscendenza alle istanze più viscerali e profondamente istintive del suo essere, senza niente rinnegare, senza nulla tacere. Le cattive sta qui allora a testimonianza di un insegnamento, a ricordarci che mai saremo in grado di riconoscerci se non guardando dentro i nostri personali e privati abissi.
È la prima volta che un cliente mette delle parole al mio dolore. La cosa che più mi fa male è il mio stesso rancore. Mi fa infuriare al punto che trasformo ogni cosa: il sollievo in tensione, la cortesia in prepotenza, la franchezza in falsità, il dolore in collera.
È in questa verità cercata disperatamente che sono belle Camila e le altre, nei loro vestiti sgargianti che negano la loro povertà, nei trucchi e nelle parrucche con cui alimentano il loro fascino. Sono vittime, certamente che, però, con tenerezza reclamano lo specchio deformante che le vede come cacciatrici, come fiere indomite che, selvagge – alcolizzate e drogate – rivelano attraverso il loro corpo, i desideri più nascosti, le ipocrisie più celate, le aberrazioni più esasperate di una società che con la luce del giorno le vuole mostri orribili e reiette e di notte le supplica con voci di bambini per un istante di voluttà, di piacere, di cedimento alle proprie smanie più recondite.
Ma quelle donne trans elargivano la propria saggezza come offrivano tutto quel che avevano in borsa a chi le trattava con rispetto. Il cuore trans. Un fiore selvatico, un fiore gonfio di veleno, rosso, con i petali di carne.
Come un trucco, Sosa Villada trasforma la sofferenza della sua esperienza – sua e delle sue compagne di questo viaggio così particolare – in un inno alla vita, un rito d’iniziazione, un manifesto esplosivo, una preghiera, una vendetta che tutto tiene insieme: lacrime e sorrisi, anima e corpo, amore e sesso, libertà e privazione. Il suo stile è tanto diretto quanto rigoglioso, semplice nei termini che sceglie di utilizzare – come se stesse parlando al lettore seduta dall’altra parte di un tavolino in un bar – immaginifico e poetico nella costruzione dei periodi, delle metafore che la aiutano a narrare con una potenza lieve una storia insieme di sofferenza, rinascita e di appropriazione dell’identità più vera di un essere umano.
Il paradiso delle trans deve essere bello come gli sconvolgenti paesaggi del ricordo, un luogo dove passare l’eternità senza annoiarsi mai. Le lupe trans che muoiono d’inverno vengono accolte in pompa magna e con particolare allegria, e in quel mondo parallelo ricevono tutta la bontà che questo mondo non gli ha concesso.
Quella favola amara è destinata a finire: l’astio crescente degli abitanti del quartiere, le nuove misure di controllo della polizia – “Mi parve sempre che ci vedessero come scarafaggi: gli bastò accendere la luce perché tutte scappassimo di corsa” – soprattutto la morte venuta a falciarle in maniera crudele e disonesta – suicidi, omicidi violenti, la piaga dell’AIDS a portarsele vie – segna il calare di un epilogo inevitabile. Le ultime pagine sono il lungo addio – tragico – a una vita impossibile eppure così ricca di speranza – quella di appartenere a se stesse – che commuove.
Le cattive – senza mai calare di ritmo, d’intensità, di stile – tiene unite pagine dove rimane il sorriso nei momenti più cupi e disperati e una malinconia che fa capolino dietro le feste, dove l’ombra della disperazione è possibile perché c’è la luce dei pochi momenti strappati a un possibile amore. Come un gioco di magia, ma reale e bellissimo.
In copertina: Christer Strömholm, Les Amies de la Place Blanche