Le Belve ha il pregio di farti venire la voglia di vedere quanto prima tutta la filmografia di Oliver Stone, perché ti assale una domanda al termine della visione, “ma è lo stesso Stone di Platoon, JFK, Wall Street, Nixon, W., The Doors ; soprattutto è lo stesso Stone di Natural Born Killers?”. Proprio a Natural Born Killers è andato il pensiero quando si è saputo della lavorazione di Le Belve, della decisione di Stone di trasferire in immagini il libro omonimo di Don Wislow: chi lo ha letto ha parlato di prosa sconvolgente e di pagine scritte che trasudavano impietosamente crudezza e violenza. Poi Le Belve è arrivato al cinema e tutti i complimenti che erano stati fatti al libro, che non ho letto, non pensi potranno mai arrivare a questo film arraffazzonato, scontato, un film d’azione quasi banale, in cui la “stilosità” (evito in tal caso il termine virtuosismo) è messa a sproposito dal regista che sbaglia anche scelte narrative oltre che tecniche: perché quella inutile e irritante voce narrante della ragazza-fidanzata dei due protagonisti?
La storia è quella di Ben e Chon, due ragazzi californiani amici dai tempi della scuola: l’uno laureato in marketing e botanica, l’altro militare con alle spalle missioni in Iraq e Afghanistan decidono di metter su un business coltivando cannabis e vendendola dapprima nella loro zona e poi espandendosi sempre più fino ad esportare in altri Stati. Una volta diventati ricchi e piuttosto potenti cominciano pure a diventare troppo conosciuti tanto da arrivare ad infastidire il cartello della droga di Tijuana, in Messico, che vuole imporgli un accordo per avere la loro collaborazione e molti dei loro guadagni; così per convincerli gli mostrano i metodi che utilizzano per punire chi non vuole scendere a patti con loro e poi gli sequestrano la fidanzata che da anni hanno in comune i due ragazzi, una certa O (che sarebbe Ofelia ma è più “cool” troncarle il nome). Ricatti, sparatorie, conseguenze di tradimenti vari allungano un brodo che era iniziato con due scene sessuali in meno di 10 minuti per tenere alta l’attenzione dello spettatore, ma che per un brodo fin troppo annacquato che dura oltre due ore sono inutili e mal distribuite. Se ci mettiamo un doppio finale che non ha alcuna ragione di esistere e peggiora solo la situazione di una pellicola già abbastanza deludente, il giudizio sull’ultimo lavoro di Oliver Stone diventa inesorabilmente negativo.
Qualcosa di positivo dovrà pur esserci in questo film: in effetti l’unica nota positiva de Le Belve si chiama Benicio Del Toro, credibile, spietato e poderoso nella sua familiare brutalità, bravo magari non ai livelli di Traffic e 21 Grammi, ma bravo. John Travolta e Salma Hayek sono più macchiettistici che deludenti mentre i ragazzi protagonisti Taylor Kitsch, Aaron Taylor-Johnson e Blake Lively sono da rivedere perché seppure intensi in alcune scene in altre paiono addirittura pesci fuor d’acqua.
Tornando ad Oliver Stone…l’impressione è che la voglia di modernizzarsi possa giocargli un brutto scherzo, almeno da ciò che si è visto in Le Belve reso alla stregua di un racconto spendibile per il mercato delle nuove generazioni affamate di film d’azione dall’aria ribelle ma con sceneggiatura insipida e poco originale; il confronto con quella genialata che fu Natural Born Killers è impietoso perché a scrivere quel film fu un certo Quentin Tarantino ed ognuna delle scelte visive che fece Oliver Stone per quella pellicola fu un’iniezione di adrenalina e novità per l’industria cinematografica di quel periodo.
Per concludere una piccola curiosità sulla locandina di Le Belve: è praticamente identica a quelle di Babel, il film di Alejandro Gonzalez Inarritu uscito nel 2006.