Negli ultimi anni, l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura ha sempre portato con sé una scia di polemiche, da quella per il cantautore Bob Dylan, a chi non perdona la mancata vittoria di autori come Marcel Proust, Philip Roth e Jorge Louis Borges. Lo scorso anno, a destare scalpore è stato il caso dello scrittore austriaco Peter Handke, insignito del più alto riconoscimento letterario internazionale, benché vicino al criminale di guerra serbo Slobodan Milošević, nonché negazionista del massacro di Srebrenica. Le polemiche sull’assegnazione del Premio Nobel ad Handke rivendicano con veemenza l’impossibilità di ridurre la letteratura a un solo giudizio estetico, inserendosi in un dibattito più ampio, che si interroga sulle responsabilità dello scrivere ed essere scrittori, e sull’imperativo a riconoscere gli equilibri di potere messi in moto nell’atto creativo.
Prendendo un momento le distanze dalla specificità del caso Handke, non sorprenderà che ad aumentare il fuoco della polemica avversa al concetto di morte dell’autore barthesiano, siano quei soggetti per cui il personale è profondamente politico, e che spesso rigettano l’idea che un’opera letteraria possa essere apolitica: intellettuali donne, persone queer o di colore.
In tal senso, facendo un passo indietro fino al 2004, l’Accademia Svedese si trova al centro di un altro tipo di polemica per l’assegnazione del premio Nobel letterario, tanto che uno dei membri dell’Accademia, Knut Ahnlund, dà le dimissioni, affermando che quella scelta avrebbe arrecato danni irreparabili alla reputazione del premio. La vincitrice del Nobel è la scrittrice austriaca Elfriede Jelinek, classe ’46. Ottenuto il massimo riconoscimento “per il fluire musicale di canto e contro-canto nei romanzi e nei drammi che con straordinario ardore linguistico rivelano l’assurdità dei cliché della società contemporanea e il loro potere soggiogante”, sembra che tutti siano sorpresi da questa decisione, Jelinek in primis. Arrivata al successo internazionale grazie al suo romanzo La Pianista del 1983, nel 2001 trasposto nella celebre pellicola omonima di Michael Haneke, al centro delle sue opere c’è il potere, la sessualità e la violenza, nell’esperienza di protagoniste femminili ai margini della società che abitano e che le respinge. Iscritta al Partito Comunista nel 1974, il corpus jelinekiano mette al centro delle sue narrazioni donne oppresse, povere, sfruttate e disilluse, in un’ottica intersezionalista che rivela con profondo cinismo il dramma di essere donna della working-class.
La recente pubblicazione per la Nave di Teseo della sua opera Le Amanti (originariamente uscito in Austria nel ’75), incarna perfettamente questo paradigma.
“Le Amanti” racconta la storia di due donne, brigitte e paula, in una narrazione che non prevede maiuscole, unita a un forte sperimentalismo linguistico, che ricorre di frequente alla paratassi e alla ripetizione di interi periodi. Le due donne lavorano in una fabbrica di corsetti e reggiseni in un villaggio delle Alpi austriache, e sono animate dalla ricerca di un uomo con cui costruire una casa e una famiglia, così da abbandonare il lavoro logorante e realizzare il proprio destino fuori dal nucleo familiare di origine, opprimente e violento.
“se qualcuno ha un destino, è un uomo.
se qualcuno si vede imposto un destino, è una donna.”
Come scrive Jelinek, non si tratta di un romanzo a sfondo regionale, né di un romanzo d’amore: il lettore non deve lasciarsi ingannare dal numero di ricorrenze del campo semantico amoroso, da tutte le volte in cui viene invocato dalle due protagoniste. Le due donne sono accomunate dal loro rango sociale – basso –, e dal loro ruolo nella famiglia, ma hanno ambizioni diverse: brigitte vuole amare e sposarsi con heinz, elettricista e aspirante imprenditore; paula, dopo avere deciso risolutamente di lavorare come sarta, desidera erich, il taglialegna più bello del villaggio, col vizio per l’alcol (elemento che lo accomuna a tutti i suoi colleghi del villaggio). Ma heinz non la pensa come brigitte: la donna è di un rango troppo inferiore per lui, la sua famiglia non accetterebbe mai che il loro figlio maschio si sposasse con una donna di misere origini. erich di paula a malapena si accorge, beve e lavora, le mani sempre più logore, la mente sempre più ottenebrata. Le donne pensano a uno spazio proprio, ai bambini, all’amore che cercano ossessivamente in ogni angolo. Mentre le donne pensano ai bambini e all’amore, gli uomini pensano a un’altra donna. Ancora più spesso gli uomini pensano ai motori e ai motorini, o agli eventi storici della Seconda Guerra Mondiale.
La voce narrante, come una cinepresa in un lungo piano sequenza, porta il lettore dentro i meccanismi del sistema patriarcale, anche in quella civilissima Austria che in realtà continua a perpetrare uno stato di subordinazione, tramandato di generazione in generazione, da figlio a figlia. Ecco che la violenza che le donne subiscono prima dal padre e dai fratelli passa nelle mani del marito, come una merce da rifilare al primo acquirente.
“lo vede chiunque: questa è una famiglia completa. l’uomo vede: adesso, oltre a mia moglie, ho un’altra creatura da picchiare e contro cui urlare, la carne di bambino è tenera, peccato che offra solo una piccola superficie.
la donna vede: ho già prodotto qualcosa, questo deve essere per me uno stimolo a proseguire nella produzione.”
Come la catena di montaggio a cui lavorano paula e brigitte, le colpe dei padri e il sistema di cui sono al tempo stesso vittime e carnefici, si tramanda da un nucleo famigliare all’altro, senza resistenze, in nome della salvaguardia di uno status quo che sembra in ultima istanza impossibile da scongiurare. Non c’è lieto fine nel romanzo di Jelinek, solo uno sguardo acuto e cinico nei confronti di una realtà che continua a infliggere i peggiori castighi sui deboli. La sua è un’accusa alla società austriaca, che le è valsa una lunga sequela di accuse da parte della critica e della stampa nazionale, ma la sua condanna ha un respiro universale, che trapassa i confini alpestri.
Ne “Le Amanti” di Jelinek a concretizzarsi è l’urlo senza eco o risposta delle sue donne, schiacciate dal peso della storia, dai padri e dai mariti, dagli uomini che incrociano per strada o in osteria. I protagonisti non sono più gli umiliati e gli offesi di Dostoevskij, ma le umiliate e le offese che si dibattono e sospirano nella penna di Elfriede Jelinek.