Nei deserti infestati di Layla Martínez

La new wave di narrativa in lingua spagnola vive una stagione felice, e tra gli audaci ricercatori di narrazioni dai mondi ispanici c’è La Nuova Frontiera, casa editrice indipendente e randagia che esplora l’oltre-frontiera per acciuffare voci e parole da tradurre per i lettori italiani. Di recente pubblicazione è Il tarlo di Layla Martínez, tradotto da Gina Maneri. Romanzo d’esordio della scrittrice spagnola, che ha vissuto sulla propria pelle una metamorfosi dalla saggistica alla narrativa, Il tarlo ha un attacco avvincente: con una frase secca veniamo subito scaraventati nella casa, singolare via di accesso all’intero romanzo.

“Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso.”

La scrittura di Layla Martínez è svagatamente atmosferica, sospesa a metà tra memorie di realismo magico e storie del terrore. Non il terrore cosmicista di Lovecraft, ma un terrore arido come le terre bruciate, dove il fantastico si schianta contro una realtà fitta di sparizioni nella desolata campagna spagnola, e la casa si dilata per diventare luogo infinito e totemico, dove i ricordi ancestrali estendono le pareti e il tempo stesso. Siamo nella Mancia donchisciottesca, a La Alcarria, ma al posto della lotta contro i mulini a vento qui si combatte con i fantasmi e il sangue. Il racconto ci avvolge con la sua andatura brutale che non risparmia nessuno, le voci di nonna e nipote si alternano sferzanti. Ci troviamo in un posto dove il sangue è cattivo, la nonna è la vecchia, e di pareti e armadi non ci si può fidare. Dappertutto si intromettono santi e candele.

“Il cattivo sangue e un posto dove stenderti la notte, solo quello puoi ereditare in questa casa.”

Layla Martínez scrive ferocemente. Non ha nessuna voglia di commuoverci e blandirci, vuole scuoterci.

Carcoma, Edizione Marciana

In un paese mezzo deserto e pettegolo come solo i paesi, affollato da invocazioni e preghiere ai santi, e da un cattolicesimo cupo e scuro come l’interno delle cattedrali di Spagna, Layla Martínez si diverte a raccontare la casa come una cosa viva, con i suoi movimenti enigmatici e i suoi riflessi istintivi – “la casa tratteneva il fiato”, “la casa si è stretta attorno alla camera da letto”, “la casa ha stretto pareti e soffitti su di noi”. Attraverso le parole e i monologhi disturbanti delle donne che la abitano, la casa prende una sua identità, è una trappola, una maledizione, una condanna; un punto ignoto e infestato del mondo, con la sua vita propria e le sue ombre, una gabbia che avvelena le anime di quelli che si avvicinano, e fa tornare indietro chiunque provi a scappare.

“Questa casa è una maledizione, mio padre ci ha maledetto costruendola e ci ha condannato a vivere fra le sue mura.”

Tra i ghigni della vecchia che si confessa, ritroviamo lontani predecessori che sono ancora presenze invisibili, figure sfuggenti di carne e memoria. Tutto ciò che passa per la casa è veleno che passa di generazione in generazione; così le donne vanno e vengono per la casa come spettri affollati di tormenti e di eterni ritorni. Gli sputi, le amarezze, le violenze subite, i vaghi desideri di emancipazione e riscatto, o il risentimento di classe nei confronti dei Jarabo, cognome vero che la scrittrice recupera dalla sua infanzia, Jarabo come simbolo degli antichi padroni che hanno collaborato con la dittatura di Franco.

Layla Martínez scava tra i ricordi, e li disseppellisce con la scrittura. Il suo racconto breve è un tentativo di rievocare una terra con le sue cento storie di sparizioni, apparizioni, superstizioni. Come Un amore della conterranea Sara Mesa, anche Il tarlo spinge la sua narrazione alla larga dalla città, in luoghi incontaminati che consentono aperture fantastiche. Ma se Sara Mesa rivolta i giochi con un racconto solitario, malinconicamente minimale e senza radici, Il tarlo ha i tempi grezzi di una ballata folk e le sofisticazioni di una storia di famiglia che trova le sue corrispondenze nelle atmosfere magiche di García Márquez, declinate alla maniera di certi racconti di straniamento horror, con dialoghi secchi dai rintocchi western, e una scrittura dal ritmo martellante e ossessivo. L’effetto è un grigio-giallo. Layla Martínez ha buttato la testa nei deserti infestati, nei territori bruciati dalle arsure di mezzogiorno, e ne è venuta fuori con un tarlo – come un pensiero fisso che ti mordicchia cervello e anima. Il lettore è sbattuto in una strettoia, e da lì deve trovare il modo di uscire.

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