László Krasznahorkai e l’insostenibile tregua dell’attimo

L’immobilismo dell’airone bianco che attende di catturare la sua preda. La stanchezza dell’uomo che, dopo aver a lungo rimandato, compie il suo viaggio verso il Partenone. Le opere d’arte e la dea Seiobo. Tutti accomunati dall’indissolubile ideale di bellezza che attraversa la realtà, il creato colto nell’attimo dell’azione, del flusso naturale di vita quotidiana. Un ideale estetico disciolto e declinato nel rapido fluire di una narrazione che non concede pausa né tregua, ma si comprime nel bisogno dell’attimo fuggente e irripetibile. I diciassette racconti, numerati secondo la successione di Fibonacci da 1 a 2584, lasciano intuire una linea progressiva potenzialmente infinita che continua a fluire anche ben oltre la fine del libro.

László Krasznahorkai, vincitore nel 2015 dell’International Man Booker Prize, è considerato il più importante scrittore ungherese vivente. Guerra e Guerra, Satantango e Melancolia della resistenza (tutti pubblicati in Italia da Bompiani) sono alcuni dei suoi romanzi di maggior successo, tradotti e apprezzati in tutto il mondo. La raccolta di racconti Seiobo è discesa da quaggiù è stata pubblicata nel 2021 sempre per Bompiani.

Ho intervistato Krasznahorkai in occasione della rassegna Libri Come 2022, quest’anno dedicata al tema della Terra, poco prima del suo incontro all’Auditorium “Ennio Morricone” di Roma.


Seiobo è discesa quaggiù, un puzzle costruito da racconti diversi, nasce come accostamento di quadri narrativi o con un progetto unitario di base?

Sicuramente non è nato come un progetto unitario, in fondo non si può essere adolescenti prima di nascere. A una storia ne seguiva un’altra, ogni racconto ne sprigionava un altro e non sapevo che forma complessiva avrebbe preso questa raccolta. Solo quando sono arrivato al secondo racconto, mi sono reso conto che si trattava della serie di Fibonacci e ho proseguito su questa strada.

Noi lo leggiamo ora, ma Seiobo è discesa quaggiù è stato pubblicato per la prima volta nel 2008. Negli anni ’90 ha viaggiato molto in Asia orientale, in particolare in Mongolia, Cina e Giappone. Che impatto ha avuto su di lei la cultura asiatica? In cosa si distingue da quella europea e quanto ha influito sulla sua scrittura?

L’impatto è stato forte, ma ci tengo a precisare che questa non è una raccolta dedicata all’Oriente, in fondo dei diciassette racconti contenuti nel libro solo sei o sette sono dedicati all’Oriente. Il titolo può trarre in inganno, perché è dedicato a una divinità orientale che in realtà il Giappone ha preso in prestito dalla Cina, dal buddismo. Seiobo, che tra l’altro nella religione buddista è definita la “regina dell’Occidente”, rappresenta l’ideale di bellezza che mi interessa e che ho cercato di rappresentare in questa raccolta.

I personaggi di questa raccolta sono isolati tra loro, non c’è cenno di dialogo. Però questa mancanza, quest’assenza riflette a mio parere la scelta di una sicurezza, di trovare nel silenzio un rifugio caloroso. La salvezza sta fuori o dentro l’essere umano? Nel dialogo, quindi nel contatto, o nell’introspezione, nella reminiscenza?

È vero che nel primo racconto non c’è alcun dialogo, ma in generale nei miei libri le parti dialogiche non mancano, solo che sono presentate in modo diverso. Non sono segnate tra virgolette, ma sono interne alla narrazione. La scelta di ridurre il dialogo riflette un’esigenza profonda del mio modo di scrivere, faccio fatica a interrompere il testo, a spezzare il discorso. Le voci che ho nella testa rappresentano storie, destini che necessitano di un flusso di parole ininterrotto per trovare la giusta forma e sistemazione finale. Mi sembrano una semplificazione le parti dialogiche brevi che interrompono la narrazione. I nostri pensieri, così come la vita, si muovono sempre attraverso un flusso.

Anche qui il senso dell’attesa detta un tempo dilatato dai contorni indefiniti. Tutti attendono qualcosa. Come in Melancolia della resistenza, la signora Eszter pensa che il “momento decisivo” sia finalmente arrivato, quello di “passare dalla fase organizzativa all’azione per avverare le profezie”. In un’epoca in cui l’uomo ha perso attrazione verso il trascendente e la realtà fa paura, la verità oggi risiede nell’attesa?

Sei sicuro che l’uomo abbia perso attrazione verso il trascendente? [n.d.r., sorride]

Se proiettiamo questo tema su uno sfondo religioso, credo di sì. Parlo a nome della mia generazione, sempre più distante dalla Chiesa, assuefatta al consumismo e alla globalizzazione, sempre in cerca di una materialità che apparentemente contraddice ogni ricerca trascendentale. Non crede?

Forse è così, ma di certo l’attesa non è una soluzione. L’attesa per cosa? Io auguro alla nuova generazione, cresciuta nella pace, di mantenere quest’atteggiamento passivo di attesa per quanto possibile, ma, se l’attesa è vuota, dipende dal fatto che la tua generazione ha perso l’interesse per i confini della propria esistenza. Questo è il motivo per cui i giovani si appellano alla droga per risolvere problemi e conflitti, perché così si può sopravvivere a questo confine. Io sarei a favore della legalizzazione della droga, così si dimostrerebbe una volta per tutte come quest’attesa sia vuota e intollerabile. Nessuno vuole guardare in faccia il vuoto né vuole riconoscere il fatto di essere vuoto, ma tutti vogliono vedersi riconosciuto il diritto di esistere. Parliamo di dignità, fondamentalmente. Non si può restare in una condizione liminare tutta la vita; la droga, l’alcol non risolvono situazioni, ma le lasciano in sospeso. Ho capito una cosa dopo anni di riflessioni e analisi della realtà: nessuno può esistere senza una propria dignità, nessuno può rinunciarci.

Foto intervista: Nunzio Bellassai, László Krasznahorkai

“L’Oshirosagi, colui che, stranamente, è l’unico ad avere sia un presente sia un passato, in quanto non ha nessuno dei due, perché in realtà non è mai esistito nel tempo che scorre e fluisce in avanti o all’indietro – colui che, come l’artista della concentrazione, ha ottenuto di poter rappresentare ciò che stabilisce l’asse del luogo e delle cose in questa città fantasma, ossia l’inafferrabile, l’intangibile, in quanto irreale, e dunque, in definitiva: l’insostenibile bellezza.” 

Lei ha raccontato in più occasioni nei suoi libri cosa significhi vivere sotto un regime, in condizioni di guerra, in scenari perennemente sospesi tra un passato nebuloso e un futuro potenziale. Guerra non è mai una parola nuova, ma lascia comunque attoniti. La guerra è tornata e sembra più vicina che mai. Crede ancora nella ciclicità degli eventi, tutto quello che è già accaduto può accadere di nuovo o c’è una falla in questo sistema apparentemente perfetto? Che significa per lei la parola guerra?

Io non ho certezze, non credo in nulla. Resta però un dato di fatto: il male, come ogni tanto accade, emerge con forza, si manifesta, questa volta nella forma di un dittatore, con un unico scopo: la distruzione. Se analizziamo la Storia, sappiamo che ciclicamente un Putin emergerà, ma non dobbiamo pensare per questo motivo che il male si palesi improvvisamente. Così, dal nulla. Il male c’è sempre, è insito nella Storia.

Lei doveva essere qui già due anni fa, sempre in occasione di Libri come. In un’edizione a cui avrebbe dovuto partecipare anche, tra gli altri, Luis Sepulveda. Io conservo ancora con una certa gelosia il biglietto delle vostre presentazioni. Poi scoppiò la pandemia, arrivarono i primi morti, tutto fu annullato. Che ricordo associa a quell’edizione, a quel periodo, e che sensazione prova a essere qui oggi?

Le pandemie non sono una novità, ci sono state e ci saranno sempre. È come il male, ogni tanto emerge nel corso della Storia. Non sappiamo quale sia stata la causa del virus e quando se ne andrà, ma l’uomo deve continuare ad affrontarlo. La pandemia non è finita. Personalmente associo il periodo del lockdown e di quell’edizione che poi sarebbe saltata a spiacevoli ricordi, anch’io ho perso persone care in quei mesi. Mia figlia ha rischiato di morire di Covid.

E ora? Che progetti ha per il futuro?

Scriverò di un assassino. Devo parlarne. Preferirei di no, ma purtroppo devo. Non mi lascia andare.

 

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