L’arte del dissenso, da Tripoli a New York fino a Roma e Atene

In questi giorni corrotti e violenti si sprecano le parole su quello che è successo il 15 Ottobre a Roma, dallo scontro fisico di piazza San Giovanni a quello ideologico (o pseudo-tale) tra partigiani, indignati, complottisti della prim’ora, gesuiti, parolai e persino indifferenti casual. Chi c’era a Roma sabato scorso ha avuto forse un punto di vista privilegiato da raccontare, ma non ha potuto esimersi da questo sentimento di parzialità delle cose; chi ha manifestato nei cortei è combattuto tra la condanna delle violenze e la legittimità dello scontro; chi non c’era si è informato a distanza, testimonianze, video, resoconti, millecento articoli, storie, eccetera. Eppure resta a tutti un vago senso di amarezza in tutta la faccenda, come bisogna collocare l’evento del 15 Ottobre? – in particolare qual è il senso di ciò che è accaduto a Roma il 15 Ottobre per un uomo in dissenso?

Il dissenso è un’urgenza primordiale, un rifiuto di ciò che è ordine costituito, degli status quo più immobili e deliranti; si lega quasi sempre a un senso profondo di giustizia sociale, al sentimento di libertà; è quello che in qualche modo caratterizza un libertario alla ricerca del cambiamento. Spesso il dissenso si lega alla lotta, abbiamo visto micro-lotte clandestine o meno di uomini in rivolta all’interno di famiglie, o di gerarchie, chiese e istituzioni, clan e mafie, fino a quelle lotte dirette contro gli stati, il Potere allo stato puro; abbiamo seguito la Primavera araba (che poi è diventata anche estate e autunno) con attenzione perché è stato lì che gruppi di uomini stanchi e affranti hanno fatto del dissenso il cardine di una lotta interiore ed esteriore, si sono ribellati a tutto ciò che era fermo, immobile, e rendeva impotenti. Del resto è anche per questo che il dissenso va a braccetto con la giustizia sociale: ciò che ci spinge a lottare per cambiare le cose è il sentimento di immeritata ingiustizia, e ci sono solo due cose da fare, accettarla o dissentire.

In Libia, in Egitto, in Siria, i popoli si sono come risvegliati insieme, e ne è nato un veloce movimento di dissenso dal basso: era così forte l’istinto di liberazione dall’ingiustizia (dai torti subiti per lunghi anni da dittature assassine e impoverenti), che ne è nata una lotta combattuta col sangue, e mentre qui si scrivono parole inutili un siriano adesso sta morendo, o esce di casa per consegnare un messaggio cifrato, e affronta la rivolta e ciò che ne consegue, ed è veramente dura accettare che tutto questo dramma umano passi inosservato tutti i santi giorni. E’ la storia della libertà offesa, tradita, irrisa, ammalata; è la storia di chi si sente costretto, escluso, messo a parte, tradito; è la storia di chi è disposto a giocare con la propria vita per riappropriarsi della possibilità di essere libero, o per darla ai propri amici e conoscenti; è la storia di un tentativo di libertà.

E’ in nome a questo dissenso sanguinario che al posto delle vecchie bandiere di pace-amore-fantasia, falci-martelli-sindacati, chi più ne ha ne metta, a Roma bisognava andare piuttosto con le nuove bandiere della Libia, ricordare quanto siamo tutti coinvolti, assecondare questo libero movimento di dissenso; perché viviamo – dolenti o nolenti – nel Ventunesimo secolo, e il Ventunesimo è in lotta per riappropriarsi delle proprie risorse, per riscrivere la storia della giustizia sociale, per costruire l’idea di libertà in modi nuovi e straordinari, per correggere tutte quelle ingiustizie che hanno creato diseguaglianze e morti, povertà e fame, 99%  e 1%, soprusi violenze e agenzie di rating. E tutte le vecchie risposte sono – appunto – vecchie. E tutte le vecchie bandiere sono solfa marcia. E tutti i vecchi modi di manifestare sono morenti, marcette di vecchi politicanti che accompagnano in scampagnate e cori di lotta (che lotta?!) le vie del centro. La politica, le risposte della politica, sono latte parzialmente scremato scaduto da tempo, tenuto in frigo per abitudine e noia.

Man mano questo sentimento d’ingiustizia ha contagiato il pigro Occidente, tutto è partito dalla Spagna – così si narra – a cui i media hanno dato il nome di ‘’indignati’’ da un famoso libro, in realtà quel che ha guidato gruppi di persone a inventare forme di protesta non è stata tanto l’indignazione, ma la crisi reale e materiale delle tasche, il sentimento di esclusione storica dalla possibilità di avere dei soldi, dunque tutta la naturale evoluzione che all’asilo una maestra promette a un bambino, il corso delle cose classico, casa-lavoro-famiglia, e via dicendo, vestiti, cibo e birre, fondi d’investimento con cui dar vita ad un’idea, e roba così. Tutto questo sentimento urgente ha finito per dar sfogo anche alle voci americane, il paese dei mutui subprime, dei pignoramenti, degli indebitamenti, dell’assistenza sanitaria ineguale e costosissima; e Occupy Wall Street, nonostante sia stato bollato come un movimento che raccoglie branchi di hippies e sognatori del cazzo (ma del resto ce le vedete le vecchiette pensionate accamparsi in strada?!), è diventata la base per una nuova discussione, il centro che ha attratto l’attenzione su un problema reale, sul malcontento e il disagio materiale del Ventunesimo secolo; e i media sono lì a dar conto di questo problema, e anche Obama dovrà dargli conto se vuol vincere le prossime elezioni. ‘’Noi non siamo sognatori, siamo il risveglio da un sogno che si sta trasformando in un incubo’’, ha detto Slavoj Zizek, filosofo sloveno, in un intervento ai manifestanti a Liberty Plaza, Ny.

  Per quanto riguarda Roma, dalle testimonianze di questi giorni la dinamica sembra più o meno la stessa, quello che cambia sono i giudizi e le interpretazioni su carnefici e vittime: black bloc, polizia, manifestanti, indignati, arrestati, fermati, proprietari d’automobili parcheggiate sulla rotta del corteo (e persino le madonnine tanto piante dai giornali nazionali, con un’insistenza da vecchia vedova rimasta sola a casa).

Quello che ci interessa è cosa accadrà da domani: in tutto questo baillame da ‘passato il santo passata la festa‘ ci saranno le condizioni per organizzare un movimento come sta accadendo a Londra e Ny, o tutto collasserà, e si finirà per discutere soltanto di nuove ”leggi speciali”, black bloc, violenze, scontri, tifoserie eccetera?

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