Cinema

Non ci stavi contenta alla città? L’Arminuta tra libro e film

Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere.

L’Arminuta, romanzo di Donatella Di Pietrantonio pubblicato da Einaudi nel 2017 e vincitore del Premio Campiello nello stesso anno, è una storia dal sapore ferrantiano che sviscera appartenenze, identità e ritorni. Anni Settanta: nell’estate che precede i suoi quattordici anni, una ragazzina di cui nemmeno conosciamo il nome viene accompagnata da quello che per tutti gli anni addietro ha creduto essere suo padre presso una famiglia che vive in paesino di montagna in Abruzzo. Scopre così di essere stata ceduta a un’altra famiglia da neonata e che la sua mamma e il suo papà della città di mare sono in realtà degli stracugini, lontani cugini da parte paterna.

L’omonimo film di Giuseppe Bonito (già regista di Pulce non c’è e Figli), uscito da poco nelle sale, permette a chi lo guarda (anche senza aver necessariamente prima letto il romanzo di Di Pietrantonio) di immergersi molto bene nel fatto: un’alfetta bordeaux arriva nel cortile della casa di campagna, i due – fino a quel momento padre e figlia, le certezze che crollano – salgono le scale con i bagagli al seguito e il cappotto appeso alla gruccia, ad aprire la porta c’è una bambina, che le sembra più piccola di lei, con le trecce sfatte di qualche giorno prima. Tutto è diverso, tutto è nuovo (e non in un’accezione positiva, almeno all’inizio).

– Allora la mamma tua qual è? ha domandato scoraggiata.

– Ne ho due. Una è tua madre.

Chi ha letto il romanzo probabilmente ritroverà nel film ambientazioni e fisionomie già vivide nella lettura, che rendono, insieme al cast azzeccatissimo a partire dalla scelta della protagonista (Sofia Fiore) e della sua sorella minore Adriana (Carlotta De Leonardis), la trasposizione cinematografica, con la sceneggiatura di Monica Zappelli e Donatella Di Pietrantonio, accurata e fedele.

Fratelli: Per davvero te la sei ripigliata tu ‘sta sturdullita?

Sei arrivata, le dicono tutti, come se fosse un saluto di circostanza, quasi stizzito. Specie i fratelli, che non mancano di mostrare il loro fastidio e disappunto nei confronti di questa novità e dell’inattesa scelta dei genitori. La famiglia è già numerosa (madre, padre, tre fratelli adolescenti, Adriana che sta finendo le elementari, un bambino piccolo), che ci fai di nuovo qua adesso. Sembra una scelta obbligata, l’altra famiglia di punto in bianco non la vuole più. Una bocca in più da sfamare per il padre che lavora a periodi alla cava di mattoni e i fratelli che non hanno abbandonato gli studi e vanno avanti a lavoretti, aiutando al bisogno i braccianti in campagna.

Sei l’arminuta, quella che ha fatto ritorno alla casa vera e propria, così diversa da quella di prima, quella che per tanti anni stava da un’altra parte. Non ci stavi contenta alla città? chiede uno dei fratelli.

Ritornata sì, ma per quale motivo? Una prima risposta a questa domanda più che lecita lascia insoddisfatta l’Arminuta e non può, tra l’altro, lenire il suo dolore per essere stata abbandonata così da un giorno all’altro presso una famiglia di cui non sapeva niente.

Tra i presenti, gli unici due a manifestare da subito curiosità e vicinanza nei confronti della nuova arrivata sono Adriana e Vincenzo, il fratello maggiore. La prima perché, sebbene le differenze di crescita e di vita siano molto evidenti tra le due, sente di aver finalmente ritrovato una compagna, una quasi coetanea con cui condividere tutto, a partire dal letto messe coccia e piedi e dalle pipì notturne. L’altro, figlio amatissimo da entrambi i genitori quanto ragazzo difficile, inizia a sviluppare una premura per questa sorella sconosciuta che poi sfocia in altro tipo di trasporto.

Per una ragazzina che è stata figlia unica fino a poco prima, non è facile trovare la propria dimensione nel nuovo ambiente, fosse anche solo per aggiudicarsi un boccone dalla pentola come la sera del suo arrivo. Sembrava tutta una lotta, e ripercorrendo l’accaduto a distanza di vent’anni come effettivamente fa la voce narrante, ci si rende contro che era proprio così. L’Arminuta deve, pian piano, conquistarsi il suo spazio in quella famiglia, avere una complice può essere d’aiuto.

Sorelle: Quando ti cala in mente di scappare, a me non ci pensi?

Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista. Ha scostato l’anta per farmi entrare, tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora più che da adulte.

In molte occasioni è Adriana, tra le due sorelle, a sembrare più grande e a comportarsi di conseguenza: svolge mansioni al suo posto perché l’Arminuta queste faccende non le ha mai fatte, è pronta a prendersi le botte dalla madre perché la sorella non è come loro, non va nemmeno sfiorata, come quando la ragazza rompe l’ultima mezza bottiglia d’olio rimasta in casa e Adriana non solo le prende, ma cade sui cocci e si fa male. O come quando, a scuola, attraversa tutto il cortile che separa le elementari dalle medie per andare in classe di sua sorella ad accertarsi che stesse bene, che fosse tutto a posto, perché sa, lei non è come noi, lei l’anno scorso andava a scuola alla città. O ancora come in quel passo reso benissimo sia nel libro che nel film in cui l’Arminuta, sopraffatta da un quadro di verità che comincia a delinearsi, ma che avrebbe preferito non sapere, scappa via da casa e Adriana va cercarla al buio e al freddo, e non sarebbe mai tornata a casa se prima non avesse trovata. Io resto qua, le urlava, cercando di riscaldarsi le braccia con le mani, ed era vero.

 

Adriana diventa per l’Arminuta una mamma in miniatura. Tutto il conforto perso a causa di una mamma ora invisibile, sparita, andata e di un’altra granitica, che non la conosce e quindi non sa comportarsi con lei è meravigliosamente contenuto in uno scricciolo che a settembre deve frequentare la prima media. Nel film di Bonito, l’interpretazione di Carlotta De Leonardis restituisce tutto questo amore. Un amore puro, di sorella che ritrova sé stessa. Non è mai cattiva Adriana, anche quando lo sembra, non è la Lila dell’Amica geniale, pure se per fisionomia un po’ potrebbe somigliarle. La malafede del paese non le appartiene, ha dalla sua soltanto l’immensa sincerità dei bambini e una grande forza che in qualche modo sarà capace di trasmettere a sua sorella.

La madre del mare e l’altra

Adalgisa, la mamma della città. Quella delle regole, delle due arance mangiate in macchina prima di andare a danza, di fare nuoto perché fortifica, quella delle mille cure e attenzioni, della premura. Quella che a certo punto inizia a stare male, si chiude in camera fa fatica ad alzarsi dal letto, non parla più. Dalla porta chiusa arrivavano conversazioni ovattate. E poi la decisione, non possiamo più tenerti, devi tornare dalla tua famiglia d’origine. Il mondo che cade addosso a una ragazzina di nemmeno quattordici anni. Le certezze sgretolate. Adalgisa che sparisce, si rende irricevibile, è presente solo con i suoi soldi che arrivano in buste gialle con tanto di francobollo o sotto forma di letto a castello nuovo nuovo a compensare mancanze, a dire economicamente ti aiuto io, anche se non siamo più vicine. La madre di prima, che l’ha cresciuta da quando aveva sei mesi a quando ne ha avuto tredici compiuti, a un certo punto esiste per l’Arminuta e pure per la famiglia che sta imparando a conoscere solo per i soldi che le manda. Il suo unico pensiero è che quella zia che pensava fosse la sua mamma è in punto di morte e lei sia stata restituita alla famiglia d’origine per questo motivo.

Tutto il dolore dell’abbandono, però, se ne fa poco degli aiuti economici. La ragazza vuole cercare di capire, non smette di tempestare di domande tutti e soprattutto la madre di qua, quella che l’ha messa al mondo e poi ceduta. Riesce a sapere poco, facendosi largo in un dialetto che spesso non comprende. Eravamo in difficoltà e lei non poteva avere figli, ci ha detto che ti avremmo allevata comunque insieme invece dopo il tuo primo compleanno non ti abbiamo vista più.

La madre di adesso è dura, sanguigna e reticente alle domande dalla figlia ritornata. Si chiude spesso nel silenzio ed è poi spinta a chiudervisi ancora di più quando un avvenimento tragico arriva a sconvolgere l’equilibrio già precario di questa famiglia. Una donna a cui non hanno mai insegnato ad amare non sa come si fa e, senza dubbio, fa fatica a impararlo e a dimostrarlo. Successivamente riesce a dimostrarlo a modo suo, come quando prepara un mattone scaldato al forno per fare in modo che alla ragazza non salga la febbre dopo che era stata ore fuori al freddo.

Lo spazio e il privilegio: la vita in città e quella in montagna

La differenza messa in atto da Donatella Di Pietrantonio nella caratterizzazione delle due madri, quella di prima e quella di adesso, quella naturale e quella adottiva, permette anche una riflessione sulla netta divisione dello spazio presente nell’Arminuta.

La città di mare in cui la ragazza ha vissuto i suoi primi tredici anni è il luogo della felicità e delle certezze di bambina, ma anche (e questa scoperta accompagna il lettore/lo spettatore per tutta la durata della storia) delle apparenze e delle bugie. C’è una certa distanza tra la città e il paese e l’Arminuta cerca di percorrerla tutte le volte che le è possibile (la prima in compagnia dei fratelli Vincenzo e Adriana, occasione in cui quest’ultima ha visto per la primissima volta il mare, altre da sola, occasioni in cui è determinata a ritrovare Adalgisa, a sapere la verità da lei).

Lo spazio della città e quello della montagna sono antitetici, non solo per caratteristiche ambientali visibili: la città di mare rappresenta la vita borghese e tutti quei privilegi che ne derivano, più comunitaria, e se vogliamo arcaica, la vita nel paesino di montagna, dove quel poco che c’è, frutto di sudore e sacrifici, viene condiviso come l’unica portata messa a centro della tavola e non è detto che tutti riescano a nutrirsi al primo tentativo. Bisogna essere veloci e scaltri, individuare il momento giusto. Niente è rassicurante, niente è dovuto.

Rassicurante rimane sicuramente la città, anche con tutte le sue contraddizioni e ipocrisie. Il paesino è teatro di violenza, spesso e volentieri familiare. La violenza scoppia nella casa quando meno ce lo si aspetta con botte, imprecazioni, sventolare di cinghie. Questo aspetto è ben rappresentato nel film di Bonito, in quanto queste scene di tafferugli familiari sono state girate in secondo piano: è così che tutta la famiglia continua a mangiare a tavola, mentre là dietro Vincenzo e il padre se le danno di santa ragione.

Tu se vuoi sta’ ecco, i verbi te li devi impara’ pure in dialetto: la lingua dell’Arminuta

La lingua in cui l’Arminuta si ritrova immersa una volta ritornata a casa è ostica, le risulta più volte incomprensibile. Per lei che si è nutrita delle parole dei libri di scuola e di un lessico familiare pulito e grammaticalmente corretto, il dialetto della sua famiglia d’origine rappresenta il non conosciuto. Quasi sempre a fare da tramite linguistico è Adriana, che protegge sua sorella, la mette in guardia e le spiega quello che c’è da sapere. Con la madre, invece, anche linguisticamente è tutto un tentativo. La donna si esprime solo in dialetto stretto, non si apre nei confronti della figlia ed è come se la barriera della lingua che mette tra di loro volesse comunicare o impari a capirmi così, o t’arrangi.

Si tratta di un dialetto fortemente radicato e concreto, i riferimenti nel parlato sono sempre spaziali, come quell’ecco, ripetuto spessissimo in qualsiasi dialogo, che sta per qua, in questo posto, in questa casa.

Il consiglio di Adriana per sua sorella così diversa da lei e ai suoi occhi indifesa resta questo: se i verbi li sai così bene in italiano (e io lo so che lo sai, perché sei brava), allora ti conviene impararli anche in dialetto altrimenti te la faranno sempre sotto il naso.

In conclusione, L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, questo romanzo su sorellanza, identità e ritorni, supera bene la prova sul grande schermo. I personaggi sono proprio come li avevamo immaginati durante la lettura e la storia non viene snaturata. Da vedere.