“C’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventa accettabile. L’essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo”.
Gli occhi di Raffaella Cerullo quando si infastidisce, i suoi pensieri saettanti, l’amicizia che attraversa gli anni e si rinnova, il cercarsi di due donne che di base confliggono ma che hanno bisogno l’una della mente dell’altra per interpretare la realtà, eventualmente per reinventarla. E ancora: l’appartenenza ai luoghi, a un nucleo familiare, che vai e vai, ti richiama, perché la vita è un cerchio e non una linea dritta. Di quasi duemila pagine della quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante (edizioni e/o), opera narrativa cult, nota anche oltre oceano, rimane dentro soprattutto questo. Una sequenza di immagini e di emozioni che la serie tivù di Costanzo ha contribuito a fissare nell’immaginario una volta per tutte, in maniera magistrale, con una colonna sonora che ancora risuona nella testa.
Al romanzo sono approdata tardi, dopo aver abbandonato un mucchio di pregiudizi: ero riluttante verso un lavoro che avevo etichettato come un’operazione di marketing editoriale senza precedenti. Mi è venuta voglia di leggere i libri guardando le puntate in televisione, man mano che la voce dell’attrice Alba Rohrwacher mi sistemava le idee. L’amica geniale è un’epopea dell’amicizia, legata a doppio filo alla storia dell’Italia dagli anni Cinquanta in avanti. Raffaella Cerullo ed Elena Greco, per tutti Lila e Lenù, si incontrano bambine e man mano che crescono, si respingono e si ritrovano. Potrebbero essere la personificazione delle sfumature caratteriali di una stessa persona, energie contrapposte che si alimentano e concretizzano reciprocamente. Lila è rabbiosa, non addomesticabile, sensibile, spietata. In lei, Elena, abituata fin da bambina a primeggiare, trova uno stimolo, un rimedio alla noia, qualcuno da rincorrere e a cui assomigliare. Se Elena è lo stoppino, Lila è la fiamma.
L’eroina e l’antieroina, la buona e la cattiva, la studiosa e l’intelligente, la goffa e la sinuosa. La capacità di Lila di rendere interessanti le cose, le azioni quotidiane indegne di un romanzo russo preso in prestito alla biblioteca scolastica nel rione Luzzatti di Napoli, è l’ispirazione che Elena ricerca. Le schermaglie mentali tra le due protagoniste diventano la tara della loro amicizia, man mano che crescono. E non è un caso che entrambe si innamorino dello stesso uomo, uno che, come loro, sa usare le parole e ne conosce le congiunture. I ragionamenti che le due donne attivano relazionandosi, mettendo in gioco le letture, il vissuto, le aspirazioni, le ansie, è qualcosa di alchemico. Un espediente alla violenza, una alternativa da mostrare a chi le vorrebbe assuefatte e invisibili. In questa armonica dissonanza sta il cuore del romanzo infinito, che si avvita su sé stesso pur srotolandosi, e si compie, ciclico, proiettatoci verso l’andare lento dei giorni, degli anni. Elena Ferrante si occupa della relazione tra due donne e della loro realizzazione, ponendovi in mezzo, a specchio, Piccole donne, il capolavoro di L.M. Alcott. Il romanzo amato da Lila e da Lenù orienta la loro infanzia più di quanto entrambe possano comprendere. La saga della sorellanza e quella dell’amicizia si incrociano nel firmamento della letteratura mondiale e si scambiano verità, respingendo luoghi comuni e vuotaggini. La passione di Lila ed Elena per Piccole donne non è solo uno dei tanti dettagli della quadrilogia: è un elemento fondante dell’impalcatura della storia, quindi un omaggio, una forma di ringraziamento e celebrazione.
Elena Ferrante conosce il potere delle parole, officia la fascinazione per una storia e quello che questo sentimento può offrire ad un essere umano. Se c’è una rivoluzione privata, immediatamente praticabile, è leggere: entrare ed uscire dalle pagine per affinare l’arte di stare al mondo o per decidere di essere chi le storie le pensa e le scrive. Con Piccole donne, l’Amica geniale condivide il mettere in chiaro che l’energia della mente è potente e che con essa una donna può fare strada, abbagliando chi le si accosta. E questa concezione non è una cortesia della scrittrice verso le sue protagoniste: è un’idea originaria del romanzo, che si tira dietro anche quella della dualità e della congruenza tra il destino delle protagoniste e quello delle loro bambole. Un parallelo banale, ma potente, quasi esoterico. Nella parabola della quadrilogia ci sono dei punti cardine, che sono le allegorie della storia.
Scomporre il romanzo, andare alle fondamenta, rifletterci sopra come sto facendo con voi, non svilisce l’opera, al contrario, esalta la capacità della autrice di edificare un plot che si srotola per pagine e pagine ammaliante, sebbene il valore letterario dei volumi della quadrilogia non sia lo stesso. La scelta della lingua tipizza l’intera opera. Il napoletano convive con un italiano cristallino, fluido, accessibile e diviene un elemento di realismo. La lingua marca le ambientazioni ed i personaggi, rende il racconto verosimile. È anche il cruccio di Lenù, che, per accreditarsi e farsi accettare lontano dal rione, accantona il dialetto per un linguaggio più raffinato. Scegliere di esprimersi in italiano o in napoletano diventa pian piano una scelta dettata dalle contingenze spazio temporali e, quando accade, la visuale del lettore si allarga o si restringe. Un meccanismo bellissimo col quale la Ferrante ha offerto una proiezione di Napoli e dell’Italia, creando relazioni tra le città al centro della trama. Per tutte queste ragioni, ma anche per il coinvolgimento di un numero impressionane di lettori, L’amica geniale troneggia: è un lavoro narrativo di riferimento, ci piaccia o no. Lo è per il modo in cui racconta la femminilità, l’amicizia, l’amore, l’appartenenza, l’ostinazione, la solidarietà e i sentimenti umani più veri e per questo difficili da gestire. Ogni cosa sa di vero, la Ferrante non ci prende in giro e non abusa della nostra intelligenza emotiva. Ci racconta qualcosa che abbiamo provato, vissuto. L’amica geniale è un esercizio di pazienza: chiede al lettore dedizione, lo accompagna in un viaggio lento dentro sé stesso. Mi avevano detto che separarsi da Lila e Lenù è doloroso, a me parevano un mucchio di esagerazioni: invece è così. Non basta questo per decretare da lettori che L’amica geniale è un capolavoro?