Se l’America si scopre imperfetta

America I’ve given you all and now I’m nothing – scriveva Allen Ginsberg usando una sineddoche, e quante volte la usiamo anche noi quella stessa sineddoche americana che ci fa confondere un intero continente con una sua parte, il paese delle stelle e strisce, il way of life yankee, in una parola: gli States. Tutti noi siamo intrisi di cultura americana, viviamo nella cultura americana, guardiamo serie tv americane, beviamo caffè americano – persino qui, nella terra dell’Espresso ristretto, ascoltiamo musica americana, molto americana, leggiamo racconti americani, messaggiamo tramite piattaforme di grandi industrie del digitale americano, ordiniamo libri su Amazon, un altro grande regno americano, e ci perdiamo in tweet, immagini, fotografie, di quella che è la nuova ondata di progresso americano in cui siamo tutti – volenti, nolenti – compromessi: la Rivoluzione Digitale all’americana. Fa niente se ci siano gli hacker russi di mezzo, o se la guerra fredda d’un tempo oggi si consumi tutta online. L’America è qui, aleggia sulle nostre teste come un impazzimento, è il fantasma che attraversa l’Europa. Resistere al richiamo americano sarà difficile, non cedere alla sineddoche che annulla il Sud in un grande stereotipo delle Americhe, pure.

È arrivata a sedurci anche grazie alla televisione, si è insinuata come un vizio, persino la ribellione d’America è arrivata nelle nostre teste al ritmo di una protesta, la grande protesta americana, al ritmo delle parole della beat generation, degli strazi di chi combatteva a favore delle minoranze americane, del movimento black, del movimento lgbt, della New Left e del movimento pacifista contro le guerre, dal Vietnam all’Iraq. È arrivata a prenderci con i suoi giornali, la sua musica, Lou Reed come cantore delle strade, e la new wave, la no wave, la New York del CBGB, la costa Ovest dei figli dei fiori, Martin Luther King, Bob Kennedy – le vittime americane del sogno americano, e il jazz, sotto forma di grande tragedia sonora che poi diventa rock, e il grunge, ed Mtv, e poi Netflix – un altro dei grandi imperi dello stile di vita americano che ci ossessiona. Abbiamo cominciato a ordinare un libro su Amazon perché era conveniente, abbiamo iniziato a guardare serie di produzione Netflix perché era comodo, abbiamo usato Messenger per comunicare perché era gratuito e a portata di mano: abbiamo creato un mondo a misura del consumatore. Il consumatore americano, che con una sineddoche potrebbe essere chiunque. Il consumatore di Madrid, il consumatore di Roma, quello del Nebraska, quello di Marsiglia: l’America, terra che è ovunque, e da nessuna parte. Lingua che si muove tra gli oceani come un’ossessione post-moderna. Anche grazie al ritmo di quello Stay Hungry, stay foolish che è venuto fuori da un brivido di esaltazione tecnologica.

 

N° 45

Diciamola subito, quella parola che fa avvilire, quella parola che corrode, entra ed esce dal vocabolario quotidiano contemporaneo, quella parola che arriva dall’America e attraversa l’Atlantico, quella parola che vi fa saltare dalla sedia, o forse vi rassicura, vi culla dolcemente, quella parola che scuote, e talvolta assedia. Quella parola che lo scrittore americano Paul Auster ha deciso di sostituire con l’acronimo N° 45 per designare il Presidente numero 45 degli Stati Uniti d’America. Alla domanda: perché lo chiami N° 45?, Auster risponde: perché non voglio più pronunciare il suo nome. Il numero 45 – continua Auster in un’intervista al magazine America – è tutto quello che mi disgusta dell’umanità, e da qui passa in rassegna il clima che circonda quel numero 45: un ministero della Sanità che non crede nell’assicurazione pubblica, un ministero dell’Educazione che non crede nell’istruzione pubblica, un’agenzia per la protezione dell’ambiente che rinnega il global warming, una politica internazionale folle, e un’ostilità verso scienza, storia, filosofia, e l’intero ammasso del pensiero chiaro e razionale. Il numero 45 non è solo il numero 45, è tutto quello che c’è intorno a lui, tutta l’atmosfera che ha portato a quest’elezione, e alla legittimazione pubblica della parola – la parola che ora tocca pronunciare.

Trump. Donald Trump.
Scongiuriamo l’equivoco che si possa parlar di America – oggi – senza tener conto della grande notte elettorale che vi tenne svegli fino all’alba per assistere al cambio di mani tra Barack Obama –  il Presidente dell’Hope, quella speranza che amaramente non si realizzò mai – a quelle di Donald Trump. Rifuggiamoci in quel mattino di Novembre di quasi un anno e mezzo fa in cui l’incubo americano prese vita compiutamente. Perché il Presidente degli Stati Uniti d’America non rappresenta solo una generazione statunitense e il suo avvilimento, ma l’intera collezione di avvilimenti che si agitano ovunque, fino a qui. Perché quella parola prende forme diverse ovunque, ma ha lo stesso significato di Grande Crisi e/o Depressione Universale dell’uomo contemporaneo di fronte ai grandi cambiamenti che ci aspettano, e ci aspetteranno. Il grande progetto americano non è iniziato con Trump, arriva da lontano. Lo abbiamo portato con noi in giro nelle tasche dei nostri jeans Levi’s stracciati, ce ne siamo innamorati guardando le fotografie folgoranti di Walker Evans, lo abbiamo urlato cantando insieme a Bruce Springsteen, trascinato con noi a delirare per le strade sotto forma dei libri di DFW.

 

Barack Obama leggeva e scriveva. Leggeva gli scrittori contemporanei, anche quelli che parlano di questioni razziali. Credete che Numero 45 abbia aperto un solo libro nella sua vita? – Paul Auster

Con la rivoluzione digitale – il cui alito di vento soffiava dalla Silicon Valley – è semplicemente stato tutto più facile: il digitale consentiva l’avvento del grande consumatore sulla scena. In quel grande entusiasmo contagioso avevamo iniziato a credere – per un attimo – che ci fossero addirittura servizi gratuiti. Che Facebook ci connetteva con i nostri amici e parenti a costo zero, e ci permetteva la più grande esperienza terrestre di essere ubiqui e arrivare ovunque. Ci estendeva. Ci disumanizzava. Ci rendeva angeli. Diavoli. Esseri umani neutrali. Qualsiasi cosa. Che grazie a YouTube ora potevamo scoprire mondi, mondi a portata di mano: musica, film, vecchie interviste. Che eravamo umani estendibili. Pieni di paranoie, ma estendibili. Che grazie a Google cercare era più facile, grazie a Google Translate potevamo tradurre dal greco all’armeno in un secondo, e supervisionare le nostre strade, setacciare mondi, scavare l’altrove – del resto, non è sempre quello che abbiamo voluto dopo essere stati sulla Luna? Ma avevamo dimenticato la pubblicità, o quello che sembra essere un contraltare di cessione di privacy. Questo non ci spaventava, al contrario di quanto ne dica l’apocalittico Morozov pensavamo di sapere come difenderci. Siamo uomini e donne di mondo, il nostro sistema immunitario digitale è capace di alzare le sue barriere, resistere. Resistere al tempo, al suo logorio, al suo fiato sul collo. E fa niente se quella spinta rabbiosa che ha sollevato l’America spingendola verso Trump sia anche stata pure eterodiretta da “intrusioni digitali straniere”: il problema è quanto abbiamo aperto i nostri cuori e le nostre teste al contagio. Quanto siamo o rischiamo di essere pezzi di spugne bagnate che assorbono la propaganda. E come salvarci. Come salvarci la pelle dal richiamo dei movimenti che invocano una purezza tutta votata al white, dal risorgimento dei nostri rigurgiti peggiori, a quegli intricati orgogli di classe e razza che avremmo dovuto dimenticare anni fa – e invece tornano vivi a prenderci in un’epoca strana, dove i messaggi di paura si diffondono con più forza, penetrando cuore e menti, subendo l’eco e lo strascico di quell’eco, rimbalzati e amplificati da profili a profili – fake o reali che siano – per fare da soundtrack alle nostre giornate demenziali.

American Dream, where art thou? 

L’America di Trump è diventata più consapevole della sua imperfezione. Gli Stati Uniti si mettono allo specchio e affrontano il trauma di questa imperfezione, che in realtà sussurrava la sua storia già da lontano, sin dal suo mito di pre-fondazione. Basterebbe raccontare come le fabbriche di rum degli stati americani basassero i loro profitti sul commercio triangolare che dall’Africa importava schiavi verso le isole dei Caraibi, dove si stendevano meravigliose piantagioni di canna da zucchero, e poi via verso le industrie del Nord America, in uno scambio marcio e insensato che si consumava sulla pelle di veri e propri deportati. Tutti prodotti raffinati che poi – ovviamente – sbarcavano anche in Europa. Quando parliamo di America raccontiamo una storia che ci riguarda, anche se si è emancipata dalle rispettive corone. Della storia degli Stati Uniti siamo complici silenti. E così è andata avanti – quella storia, tra stermini, schiavitù, leggi di segregazione e imperialismi. L’America di Trump si guarda allo specchio, butta via la retorica e fa i conti con la sua imperfezione. E allora non suona strana la presa di coscienza americana che si è tradotta anche in arte e in musica negli ultimi tempi. L’ultimo album degli LCD Soundstystem di James Murphy è il canto del cigno dell’American Dream, l’ultimo album dei National è un invito a rifugiarsi “a casa”. “Una volta che Trump è stato eletto, tutta la cultura pop è diventata un discorso su Trump, incluso il mio album” – ha detto, un po’ amareggiato, Father John Misty. Ma Trump è solo l’estremo sintomo di un clima dalle radici più profonde.

L’America non è mai stata perfetta, e il suo sogno di libertà somiglia a uno schianto. William Finnegan, autore del selvaggio memoir sul surf The Barbarian Days, ha notato come il suo libro sia diventato un dolce rifugio in epoca Trump, un sogno d’evasione per un’epopea lontana statunitense. La costa californiana, i figli dei fiori e i Beach Boys, la prima grande cavalcata alle onde ascoltando surf music, “le persone leggono il libro come per dire che la vita un tempo fosse migliore, e anche il paese e la politica” – continua Finnegan. Ma sono anche gli anni in cui gli Stati Uniti sono scossi dal grande dolore delle guerre in giro per il mondo, e il paese si divide – allora, come oggi – tra chi è contro e a favore della guerra. Sono anni di esplosioni, rivolte, morti.  Sono gli anni in cui Lou Reed se ne va in giro a canticchiare che il sogno americano in realtà è un incubo delle notti in strada. E allora quell’immaginario d’America si divideva in due – allora, come oggi – dirsordinato, sconquassato, perduto tra la volontà di potenza di un paese capace di radere al suolo con l’atomica un’intera città, e la sua collezione umana di storie e contro-storie che percorrevano la terra americana. Ma era anche grazie a quelle estreme divisioni che nascevano storie straordinarie. Jim Carroll che diventa un poeta dopo un’adolescenza perduta, Zimmerman che dà voce alle minoranze inascoltate, Mark Rothko che distrugge le nostre certezze visive. In fondo gli Stati Uniti sono stati la gioventù, e in quanto tale non avevano niente da perdere: potevano inventare, sperimentare, distruggere, creare. Se il punk inglese si vendeva al mercato, quello degli Stati Uniti cacciava fuori il furore della new wave.

E anche per quella spinta creativa di gioventù che gli States sono stati capaci di dar vita a quei prodotti che oggi circondano tutti e stanno rimodellando le nostre città e i nostri spazi, e non si tratta più solo di rum, zucchero e tabacco Chesterfield: i pacchi Amazon che volano da una parte all’altra con tutta l’urgenza di una consegna Prime, l’i-Pod nelle nostre orecchie per ascoltare tutta la musica possibile dentro un unico micro aggeggio, il vino californiano – sì, persino il vino, che entra diretto nelle nostre Instagram Stories che rimodellano il nostro spazio digitale, mentre una notifica di un qualche social qualunque interrompe la lettura di un ebook qualsiasi di Raymond Carver – statunitense pure lui, prima di metter su una serie a caso di Netflix o un pezzo di Kendrick Lamar su YouTube. E mentre noi ci compromettiamo fino al colletto, la rivoluzione digitale impazza, e il consumatore globale si scontra contro l’1% del mondo. Sia lodata Lana Del Rey.

 


 

 

It’s not like his songs are going to simply evaporate, but since the news I can’t stop listening to him on endless shuffle—familiar, yes, inside me, yes, which means I’m alive, or was, depending on when you read this. Now a song called “Sad Song,” the last one on Berlin, sung now from the other side, just talk, really, at the beginning, then the promise or threat, I’m gonna stop wasting my time, but what else are we made of, especially now? A chorus sings Sad song sad song sad song sad song. I knew him better than I knew my own father, which means through these songs, which means not at all. They died on the same day, O what a perfect day, maybe at the same moment, maybe both their bodies are laid out now in the freezer, maybe side by side, maybe holding hands, waiting for the fire or the earth or the man or the salt— if I could I’d let birds devour whatever’s left & carry them into the sky, but all I can do it seems is lie on the couch & shiver, pull a coat over my body as if it were all I had, as if I were the one sleeping outside, as if it were my body something was leaving, rising up from inside me & the coat could hold it in a little longer.

Nick Flynn – The Day Lou Reed Died

*Nick Flynn è un poeta e scrittore statunitense, famoso soprattutto per il suo libro memoir Another Bullshit Night in Suck City, che racconta la sua controversa storia di famiglia. 

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