I provinciali di Jonathan Dee è un romanzo con una struttura corale, polifonica. Nella placida campagna statunitense sorge la cittadina di Howland, una piccola realtà in cui tutti si conoscono. I personaggi sono imparentati tra di loro, amici, conoscenti o nemici giurati: in un modo o nell’altro, ciascuno sa tutto delle vite altrui. In questa piatta società di provincia l’autore inserisce l’innesco che scatena il terremoto e divide le coscienze. In primis, il racconto prende le mosse dai fatti dell’11 settembre, accendendo i riflettori su una nazione sgomenta, in preda al il terrore cieco e al senso di accerchiamento. In secondo luogo, a turbare le acque di Howland è l’arrivo del miliardario Philip Hardi, convinto della bontà e della necessità di una vita lontana dal traffico newyorkese. La provincia diventa allora una grande metafora, la possibilità di ricostruirsi un’integrità morale perduta.
Dee tratteggia Hardi come un homo novus, uno che ha il potere spicciolo del portafoglio, uno che può tirare fuori i contanti sorpassando regole e burocrazia. Le reazioni dei provinciali sono opposte: Mark Firth, a cui Hardi assegna un lavoro di sicurezza, ne è totalmente affascinato. Il completo che Philip indossa, la sua pacata freddezza, l’aura di potere che lo circondano sono una dimostrazione di superiorità assoluta. Mark è attratto dalla sua apparente influenza, dalla capacità di ispirare timore riverenziale, rispetto per la gerarchia. In tal senso, Philip Hardi rappresenta una cricca di uomini bianchi, ricchi e privilegiati, che amano restituire alla comunità parte delle loro private ricchezze. Di tutt’altro avviso è il fratello Gerry, fondatore di un blog di controinformazione. Gerry è polemico e perennemente in competizione con il fratello, possiede una forte inclinazione all’alcool e alle relazioni con donne sposate. Per lui Philip Hardi non è altro che un impostore, un magnate che si è preso con i soldi l’amministrazione cittadina e che vuole spianare la strada a una società del Grande Fratello, in cui tutti vengono controllati a vista da telecamere di sicurezza h24.
Il romanzo potrebbe reggersi già su questo triangolo, eppure Dee decide di confondere il lettore con cambi di prospettiva continui. C’è la sorella dei due, Candace, ex insegnante e bibliotecaria maldestra; Karen, una moglie fin troppo apprensiva. Ci sono i poliziotti, i vicini di casa, l’amministrazione della scuola: una carrellata di personaggi che si riversano nella storia, una fiumana che parla e spettegola e dice la sua senza vergogne.
In quest’America lontana dallo scintillio newyorkese e dai Martini al bancone del bar, si consuma una storia di piccole infelicità quotidiane. L’atmosfera del romanzo è piatta: le conversazioni non hanno mai un risvolto brillante, una citazione colta. La visione delle cose è costantemente riportata al proprio personale punto di vista, ai bisogni impellenti. Gli uomini e le donne di questa cittadina ricercano la serenità nell’alcool, nelle relazioni extraconiugali, nella competizione costante col proprio vicino. La propria posizione sociale è tutto. In questa situazione Philip Hardi è una figura ambigua: eletto per ben due volte sindaco di Howland, sembra non perseguire alcuno scopo personale se non il bene della comunità. Il miliardario rifiuta lo stipendio e finanzia di tasca sua ogni impresa locale che richiede il suo aiuto.
Jonathan Dee è bravo a non svelare nulla della figura di Hardi: ci lascia dubbiosi come i suoi provinciali, a domandarci se sia o no in buona fede. Siamo nell’era di Bush ma potrebbe essere tranquillamente anche quella di Trump, un’epoca storica il cui personaggio principale afferma con calcolata astuzia: “la democrazia non funziona più”. Quello che conta sono i mezzi: il denaro e tutto ciò che gli gira intorno.
Dee conosce i meccanismi del cuore oscuro dell’America, scava nelle faglie di una comunità votata all’assistenzialismo: “da cosa dipendevi non aveva importanza, era una falsa pista. La terra sotto ai piedi di Gerry era stata invasa e arata e consacrata da uomini convinti che solo il perseguimento degli interessi personali potesse moltiplicarsi nel bene comune”.
In questa società consumistica e superficiale riconosciamo porzioni della nostra personale quotidianità. Howland è provincia e villaggio globale al tempo stesso, un luogo in cui siamo tutti troppo umani nei mezzucci, nelle invidie, nell’ambizione. Il lettore è chiamato a prendere posizioni nelle piccole beghe di vicinato, a schierarsi con l’uno o l’altro personaggio nelle faide familiari. Jonathan Dee scrive un romanzo che è uno specchio in cui ciascuno di noi si riflette con diversa sincerità. Per tale motivo riesce nell’impresa di ridurre un testo corale a una sola voce: quella dell’uomo spaurito e resistente al cambiamento, solo in mezzo agli altri. Così Dee ci confonde e ci lascia col dubbio di essere noi tutti, in fondo, i provinciali di questo mondo.