A fable from a true tragedy
Dopo un avvio di carriera straordinario che – concentrato, anche per la peculiare ascendenza familiare, sulla storia cilena e su un’inevitabile riflessione che metteva al proprio centro il discorso sul potere e, conseguentemente, sul male – era stato soprattutto una forma di cinema declinato al maschile (Tony Manero, Post Mortem, No, El Club, Neruda) – in questi ultimi anni il regista cileno, nato a Santiago il 19 agosto del 1976, sembra aver diretto la sua attenzione verso un racconto capace di contenere al suo interno lo sguardo dell’ e sull’universo femminile. Lo conteneva, certamente, il suo ultimo lungometraggio – quell’Ema dove una convincente Mariana di Girolamo era l’interprete di un musical decisamente sui generis – e lo stesso si può dire della serie, per Apple Tv+, Lisey’s Story, costruita intorno alla performance di Julianne Moore. Ma è stato soprattutto con Jackie, del 2016, con un’intensissima Natalie Portman a interpretare una delle icone del Novecento – qui nella sua versione storica prima delle dinamiche glamour – che Larraín ha saputo confrontarsi con l’urgenza di un ritratto biografico che sapesse condensare nello spazio comunque breve di un film il senso definitivo di una parabola umana.
Un’esperienza che coincideva – ormai ben sei anni fa – anche con la prima produzione fuori dai confini cileni cofinanziata dagli Stati Uniti e che oggi si ripete – su un fronte anglosassone che non può che essere quello squisitamente britannico – per il racconto di un’altra icona del Novecento, la Principessa del Galles Diana Spencer, più semplicemente Lady D, simbolo affascinante e complesso da viva, assurta, suo malgrado, ad autentico mito dopo il 31 agosto del 1997, da quella notte maledetta che la portò via in un incidente a Parigi sotto il tunnel del Pont de l’Alma.
Già con Jackie, Larraín aveva con forza mostrato l’opportunità che allargare il possibile spettro della propria platea con film in inglese – e senza la protezione della casa cinematografica che condivide con il fratello Juan de Dios – non implicava un tradimento verso le proprie idee artistiche. Tutt’altro. In Jackie avevamo assistito, infatti, all’elaborazione di una forma di biopic nata proprio con Neruda – che in una certa misura concludeva la sua riflessione sui simboli del suo Cile – e volta a interpretare, secondo il proprio stile e la propria sensibilità, il genere. Una parte per il tutto, una sineddoche cinematografica che dia conto, solo attraverso l’uso di poche pennellate e di colori ben scelti, del significato ultimo di una vita.
Del resto, un occhio ben attento sa, fin dal titolo, come il racconto di Larraín punti ben lontano dalla “Principessa del popolo”, finanche dalla moglie di Carlo, l’erede al trono, dalla madre del futuro Re d’Inghilterra. Spencer è la storia del Natale del 1991 – pochi mesi dunque prima della fine ufficiale del matrimonio con Carlo e dell’allontanamento dalla Famiglia Reale – consumatosi nella tenuta di campagna di Sandringham, nella contea di Norfolk. Tre giorni che coincidono con l’apice di uno stato di esaurimento, di burnout diremmo oggi, non più procrastinabile, durante i quali Diana, attraverso gli indizi offerti dalla campagna che la circonda e nella quale – come da incipit – letteralmente perde la propria strada, finisce col ricongiungersi alla propria infanzia e all’esperienza della propria famiglia d’origine. Spencer, per l’appunto, finalmente, non più Windsor, non più principessa.
Spencer – con la sceneggiatura di Steven Knight, il creatore di Peaky Blinders – che vede protagonista assoluta una Kristen Stewart chiamata a reggere il peso di un’interpretazione difficilissima e che riesce in molti momenti a far dimenticare la possibile verosimiglianza con un volto così autentico e popolare come quello di Lady D – raccoglie un momento della vita di Diana Spencer e su quel momento, attraverso pochi e precisissimi segni, costruisce il suo punto di rottura, uno strappo perennemente in bilico tra gli spazi sconfinati della campagna inglese e quelli terribilmente angusti delle proprietà dei Windsor. Una dicotomia paesaggistica, di spazio, di mondo interiore e di scelte chiamate a compiersi che, fotogramma dopo fotogramma, consegna, infine, una storia di grande potenza visiva ed emotiva, immersa nelle atmosfere di una favola nera.
Cinematograficamente non esiste un debito ma una vera e propria dichiarazione d’amore per immagini che appare manifesta e che si muove lungo una linea capace di congiungere senza discontinuità due tra i capolavori di Stanley Kubrick: Barry Lyndon e Shining che si susseguirono rispettivamente nel 1975 e nel 1980. Da Barry Lyndon, Larraín deriva la geometria formale e la composizione di fine settecento degli interni, soprattutto in presenza della famiglia reale al completo. Salotti, saloni ampi, cene a lume di candela dove i movimenti della servitù assumono le forme di un’autentica coreografia. Persino la discesa dalla Bentley dei cagnolini corgi della Regina Elisabetta somiglia a un’autentica danza. Se però nel film di Kubrick la bellezza e l’eleganza formale erano il tentativo magistralmente riuscito di portare sulla pellicola i dipinti di pittori quali Gainsborough, Hogarth, Watteau, Constable e Füssli, qui la rigidezza formale si fa dimensione della cappa opprimente cui si è ridotta la vita di Diana “a corte”. La quotidianità del palazzo è scandita da riti immutabili cui è impossibile sottrarsi dove anche le usanze velate di ironia – la pesatura prima dei pranzi e delle cene celebrative – assomigliano a una trappola che sposta in luoghi inaccessibili gli orizzonti di libertà.
Dunque, la sua non è un’operazione derivativa che si lega al naturale omaggio – come pure è proprio di un film notevole com’è stato La Favorita di Lanthimos – ma un modo sapiente di mescolare i riferimenti cinematografici sporcandoli in una certa misura con l’intersezione di altri piani sia metacinematografici che di natura diversa come quelli psicanalitici – non è un caso, infatti, che dentro la dimensione da quadro settecentesco Larraín sembra voler introdurre – quasi a mescolare le carte o a giocare con lo spettatore – ulteriori elementi kubrickiani come nella scena tra Carlo e Diana intorno a un tavolo da biliardo che richiama gli scambi tra Tom Cruise e Sydney Pollack di Eyes Wide Shut (proprio intorno al senso di una possibile pericolosissima sciarada). Del resto se da una parte è vero che Larraín – e Kristen Stewart è in questo bravissima – mette in scena il crollo di Diana, allo stesso tempo non si esime dal raccontare non solo la Famiglia Reale – come altro fronte – ma l’intero sistema di potere e tradizione che la sua stessa esistenza comporta: un corpo vessatorio che in maniera velatamente sadica alimenta le angosce della sua vittima/protagonista.
Se però la condizione quotidiana è tale da consentire una sorta di controllo delle ansie che si generano dentro e intorno a Diana – ansie di fatto arrivate a minarla all’interno non solo di un meccanismo di potere ma soprattutto familiare – è soltanto attraverso i tentativi di Diana di fuggire alla morsa letale che la stringe, che la tensione può deragliare in maniera compiuta tingendosi dei colori – come dicevamo – di una favola nera e di nuance horror/thriller come fu, appunto, per lo Shining di Kubrick e la sua paura spaventosamente razionale che esplodeva, improvvisa, tra le mura dell’isolato Overlook Hotel. Come per Jack Torrance, anche Diana è costretta ad affrontare le allucinazioni della sua mente: lì provocate – di là dalle ragioni sovrannaturali che Kubrick di fatto seppe lasciare sullo sfondo, ponendosi oltre Stephen King – dall’isolamento forzato, qui da una reclusione ben evidenziata dal confine con tanto di filo spinato che recinta la tenuta, trasformandola in un più che simbolico carcere. Ecco allora il disagio – depressione, tentativi suicidali e autolesionistici, disturbi alimentari e, in quanto tali, affettivi – prendere le sembianze del deragliamento onirico fino a spingersi – con Diana coinvolta da un libro che legge ogni sera prima di addormentarsi – all’apparizione del fantasma di Anna Bolena in cui si specchia e nella cui fine preconizza la possibile simbiosi; un fantasma che nella sua spettralità nulla lascia al grottesco né all’horror di bassa lega, ma si pone come contraltare psichico di un’irrefrenabile angoscia.
L’urgenza di fuga di Diana nei confronti di un destino che pare scritto e a cui pure giovanissima ha abdicato prima di ogni cosa la sua innocenza e che in maniera quasi nevrotica ne sancisce – lungo l’arco dei tre giorni – le pure possibili rivolta e rinascita, rappresenta allo stesso tempo la discesa spaventosa nelle spire di un incubo che altro non è – sembra suggerire Larraín – che il riflesso della sua solitudine.
Il modo in cui sono filmati gli spazi, i carrelli e la steady addosso a Kristen Stewart, i corridoi che si restringono, le cucine dove Diana prova rifugiarsi inseguita dalla figura solo apparentemente bonaria di un gigantesco Timothy Spall nei panni del maggiordomo – per il quale è semplicemente impossibile non pensare al Dick Hallorann di Shining – sembrano rimandare costantemente all’angoscia familiare sulla quale era costruito il pur inossidabile e irrisolvibile mistero dello stesso Shining. Allo stesso modo l’uso costante dei grandangoli nelle sale della tenuta trasmette, incessantemente, la solitudine della principessa triste e l’oppressione costante di una vita privilegiata quanto insopportabile perché costruita sull’obbligo di un protocollo che non è solo quello di una sera di festa ma di una vita pubblica che deve essere tale anche al di qua di mura che non possono mai dirsi domestiche. Il trauma di Diana come l’innesco del potere di una famiglia sul recupero della propria infanzia.
Il solo orizzonte di libertà che Diana può raggiungere è al di fuori di quegli spazi, fuori da quella famiglia, di là dalla rigidezza dell’ordine. Alla luce del giorno. In primis nella pienezza della campagna inglese. Persa all’inizio del film mentre guida sola, rifiutando ancora una volta le rigide regole reali, Diana trova una bussola e un proprio orientamento osservando uno spaventapasseri addobbato con un vecchio giaccone del padre. C’è tutto in quella scena, mentre supera la staccionata e, prima con passo compito quindi finalmente con uno slancio quasi da bambina, si avvicina alla struttura di metallo per riprendersi come un feticcio l’oggetto dell’amore paterno. È quel giaccone montato su un’illusione allegra e spettrale allo stesso tempo che le consente finalmente – dopo anni – di orientarsi – di dare una misura allo spazio circostante che allo stesso modo è, finalmente, uno strapparsi di dosso il vestito – è un film pieno di vestiti, simulacri di maschere come avveniva nella Jackie di Natalie Portman che solo svestendosi riusciva finalmente a entrare in contatto col suo dolore – che non solo la Famiglia Reale ma il mondo intero le ha cucito addosso per ricongiungersi alla sua infanzia e a un ritorno pieno a se stessa.
Così Spencer rappresenta quasi un coming of age, evidentemente fuori tempo massimo per la sua protagonista, che pure sarà capace – di là da un finale drammatico che resta fuori dalla storia e in ogni caso nulla toglie alla riconquistata libertà – di spezzare l’incantesimo e dare un lieto fine alla favola nera di Larraín. Quel suo essere bambina, quel tornare a se stessa finisce con l’essere possibile non solo attraverso l’uscita da quegli spazi ma attraverso l’incontro con l’altro. L’altro che, come da biografia di Diana, appartiene sempre al popolo e in Spencer assume i connotati di due personaggi: il cuoco interpretato da Sean Harris – protagonista a sua volta di una scena bellissima a inizio film con un “cambio della guardia” alle prime luci dell’alba tra militari e servitù che rimane tra le cose di maggior impatto del film – e soprattutto la cameriera Sally Hawkins (La forma dell’acqua) che con la sua cura, la sua attenzione, il suo amore sommesso e sorridente saprà regalarle la forza di riprendersi la sua vita.
Elemento imprescindibile di Spencer che non può essere in alcun moto taciuto è, infine, la colonna sonora affidata a Jonny Greenwood. Non semplice score o accompagnamento sonoro, le musiche che il compositore inglese e polistrumentista dei Radiohead ha scritto per questo film sono letteralmente colonna portante che non affiancano o sottolineano le scene ma ne trasmettono, come in filigrana, le istanze più nascoste e profonde. Arrival – quasi un leitmotiv wagneriano – con cui la pellicola si apre, è non solo tra i vertici della sua carriera ma in sette minuti e venticinque secondi compendia le atmosfere che domineranno il film, riuscendo a mescolare senza alcuna frizione la melodia classica degli archi – a sua volta omaggio palese a una delle melodie per violino più bella e triste mai composta, quell’Erbarme Dich dall’aria del pentimento di Pietro nella Matthäus-Passion di Bach, che tanto cinema ha accompagnato a partire da un’altra Passione, quella pasoliniana – alle note più sketchate di certo jazz anni ’50 e che pure molto deve a un altro film e a un’altra perdizione, quella di un’innamorata Jeanne Moreau nell’Ascenseur pour l’échafaud di Louis Malle musicato in presa diretta da Miles Davis.
Al suo nono lungometraggio Pablo Larraín continua – è incredibile ed è una fortuna – a non mostrare segni di debolezza. Nel suo percorso di fedeltà incrollabile a un’idea di nuovo cinema sudamericano, questo figlio dell’alta borghesia cilena, anche a contatto con la fiamma di uno tra i personaggi più conosciuti della cultura pop degli ultimi quarant’anni riesce a imprimere il segno del suo cinema, una strada che – pure come in questo caso in cui sa cullarsi nel solco di grandi maestri – resta autorale, personalissima e autentica.