“La zona d’interesse” di Jonathan Glazer – tratto dall’omonimo libro di Martin Amis – non è un film tout-court sulla Shoah, in quanto cerca di andare oltre la tipica rappresentazione del male del Ventesimo secolo, focalizzandosi unicamente sui carnefici diretti e sulla loro quotidianità, su chi ormai il male lo ha più che ingerito e metabolizzato.
La trama è piuttosto semplice, a tratti banale: lo spettatore è immerso nella noiosissima storia della famiglia borghese degli Höss (moglie e marito con cinque figli biondissimi, che hanno seguito a menadito i dettami del Führer, spostandosi a Est e crescendo una famiglia sana e devota al nazionalsocialismo), tra le gite a cavallo per raggiungere il fiume e giocare immersi nella natura, le feste in piscina, le ore trascorse nel bucolico giardino, le giornate spese con le amiche a spettegolare tra scambi di pellicce e gioielli, senza contare l’impegno del capofamiglia per essere promosso di grado e ottenere riconoscimenti dai suoi superiori. Solo che gli Höss non sono una famiglia tedesca qualunque: Rudolph Höss (interpretato da Christian Friedel) è il comandante del campo di sterminio di Auschwitz – e prima ancora aveva avuto dei compiti di polizia a Dachau e il comando del campo di concentramento di Sachsenhausen prima dell’invasione della Polonia – nonché l’artefice del meccanismo dei forni crematori per portare a compimento la soluzione finale nel più breve tempo possibile. Un risultato, questo, che gli portò il benestare di Heinrich Himmler in persona.
È proprio di fianco a quel mattatoio che si trova il paradiso bucolico in cui vive insieme alla moglie Hedwig (la magistrale Sandra Hüller, già palma d’oro a Cannes 2023 per “Anatomia di una caduta”) e i loro cinque figli. La vita famigliare degli Höss viene osservata da una tecnica di ripresa il più oggettiva possibile, capace di mantenere le giuste distanze dagli attori, al punto da dare l’idea di stare assistendo più a un reality show che a un film. In questo modo la possibilità di osservare da vicino i protagonisti e tentare di comprenderne i pensieri è pari a zero, così come quella di empatizzare con ognuno di loro.
Hedwig: “Questi fiori sono bellissimi. Le azalee. Abbiamo anche degli ortaggi. Qualche erba aromatica, rosmarino, barbabietola e finocchio, girasoli.
E qui c’è il cavolo rapa. I bambini adorano il cavolo rapa”.
Tronfia e orgogliosa, la padrona di casa è molto fiera del risultato della ristrutturazione casa e del giardino mentre li mostra alla madre in visita, affermando di aver ricreato il paradiso in terra. A fare da sfondo del rapido giro della dimora e dello spazio verde ci sono le torrette del campo, il filo spinato, le urla dei detenuti e i comandi delle SS pronunciati in un duro tedesco. Elementi visivi e uditivi (questi ultimi sono il risultato del lungo studio dell’ingegnoso sound designer Johnnie Burn) difficili da eliminare del tutto, ma che rimangono ben presenti agli occhi e all’orecchio di chi guarda e che non è arrivato al livello di anestetizzazione e di normalizzazione del male raggiunto dai protagonisti del film.
“Forse è qui che si trova la signora da cui andavo a fare le pulizie e per il club del libro”, abbozza la madre, con naturalezza priva di alcun tipo di preoccupazione. Sì. Può essere. Boh. E passa a mostrarle il resto della serra come se niente fosse, elogiando la vite che sta crescendo rigogliosa e che presto riuscirà a ostruire del tutto la visibilità del campo.
Nemmeno l’ombra di un pentimento
Non ci sono dubbi che Hedwig sappia cosa succeda aldilà del muro, anzi: si appropria, come altre donne che la vengono a trovare, di oggetti e indumenti di valore sottratti alle prigioniere appena arrivate ad Auschwitz, e mentre bevono serenamente il te si accingono in discorsi ricchi di pregiudizi e antisemitismo. Attraverso il suo personaggio e quello del marito Rudolph, Glazer mostra ciò che non tutti sono in grado di tollerare e di guardare, e non è certo ciò che hanno subìto le persone di origine ebraica e le altre minoranze perseguitate: è l’indifferenza di chi, implicitamente o direttamente, ha permesso che tutto ciò accadesse, insieme alla connivenza con il male.
Infatti, nei protagonisti non c’è un barlume di pentimento per quanto perpetrato, anzi: Rudolph Höss e la moglie Edwig sono animati da un senso di compiacimento e di soddisfazione per aver partecipato al piano di Adolf Hitler. Il comandante in particolare si mostra come un padre amorevole e presente, un lavoratore instancabile, quasi più come un manager di un’impresa che di una fabbrica di morte quale era Auschwitz: infatti, cenni a una follia sanguinaria e a un’esaltazione antisemita del carnefice sono del tutto assenti. Prevale, invece, la mediocrità di un dedito funzionario del nazismo e, in particolare, del piano di Hitler: infaticabile al lavoro e continuamente alla ricerca di nuove soluzioni, la sua precisione attenta e la sua meticolosità gli valgono il plauso dei pianti alti del Terzo Reich e il delicato compito dell’operazione ungherese (soprannominata Aktion Höss) nel 1944, che gli permetteva così di far ritorno in Polonia. Una promozione che lo esalta al punto da chiamare la moglie nel cuore della notte per darle la lieta notizia, mentre è nel mezzo di un party pieno zeppo di gerarchi nazisti. È su di giri come un bambino. Non sta più nella pelle, come un impiegato qualunque che, dopo anni di servizio, riceve il premio tanto ambito.
Dal canto suo, la moglie è profondamente legata al risultato raggiunto, sia per la posizione sociale raggiunta da lei e da Rudolph, sia per il risultato ottenuto nella proprietà: “Rudolph mi chiama la regina di Auschwitz”, svela la madre con tanto di orgoglio e compiacimento, dopo che questa si congratula con lei dicendo che è caduta in piedi, sottolineando che è riuscita a salire di qualche gradino nella scala sociale. Edwig, infatti, si identifica totalmente nella nuova dimora al punto da non volerla lasciare al trasferimento del marito dovuto al nuovo incarico. Un legame, quello con la casa, quasi incomprensibile visto il luogo in cui sorge. Ma questa sua determinazione non fa che confermare la teoria della sua cecità e del suo bieco sprezzo per quello che accadeva sotto i suoi occhi, al di là del muro che la separava dalla spietata fabbrica di morte.
Seppur relegati a sfondo, Auschwitz e la Shoah non sono così facili da ignorare o da cancellare. Basta prestare attenzione ai dettagli: dagli stivali del comandante impregnati di sangue alla cenere che viene utilizzata nell’orto e che pervade il fiume in cui i bambini nuotano insieme al padre, fino all’odore stesso di cui è pregna l’aria e, in qualche modo, sembra infastidire alcuni membri della famiglia, insinuandosi nel loro ambiente paradisiaco solo all’apparenza, smascherando la loro farsa.
Con questa decisione autoriale, “La zona di interesse” mette continuamente alla prova lo spettatore, che si trova immerso nelle vicende banali e noiose di una famiglia borghese a due passi dall’orrore. La sfida vera di chi guarda, però, è non perdere mai di vista quello che si riesce a intravedere oltre quel giardino, riuscire a sentire le urla di dolore dei prigionieri e i colpi di fucile e pistola, per non arrendersi o, peggio, abituarsi alla banalità del male.
L’Oscar come miglior film straniero e il riferimento alla Palestina
Da quando è uscito, “La zona di interesse” ha ricevuto diversi consensi e riconoscimenti, a partire dal Gran Premio Speciale della Giuria alla settantaseiesima edizione del Festival di Cannes, senza dimenticare il lungo consenso ottenuto alla Festa del cinema di Roma. Inoltre, la pellicola del cineasta britannico si è aggiudicata la statuetta come miglior film internazionale e come miglior sonoro.
Durante il discorso di ringraziamento, Glazer ha definito “La zona d’interesse” un film per il presente, con un chiaro riferimento a ciò che sta accadendo in Palestina a opera di Israele: “Rifiutiamo che il nostro essere ebrei e l’Olocausto vengano strumentalizzati da un’occupazione che per tante persone ha portato al conflitto, siano esse vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza”. Parole che incitano a resistere alla disumanizzazione tipica della contemporaneità, che ci ha abituato fin troppo a convivere con il male accanto senza battere ciglio.