Arte è un’opera teatrale scritta da Yasmina Reza nel 1994 e pubblicata in Italia da Adelphi nel 2018. Dopo la trasposizione cinematografica de Il dio del massacro in Carnage di Roman Polanski, si tratta di un’altra acuta analisi della drammaturga francese che ha incastrato gli uomini nei loro vizi e nelle loro virtù e ne mostra le fragilità con distacco e ironia. In Arte ci sono tre uomini, amici di vecchia data, che si interrogano sull’acquisto disgraziato di un quadro bianco da duecentomila franchi di uno dei tre, Serge. Il primo a prendere la parola è Marc che, senza troppi giri, lo definisce “una merda” e, con lui, è facile annuire compiaciuti. Si insinua nel dialogo Yvan, amico che ammicca a entrambi e rimane nel mezzo, senza mai sfiorare di troppo le parti di uno o dell’altro amico.
Nella baraonda di analisi fioche, divertite e serie sull’arte che emergono le opinioni sembrano voler superare quelle degli altri. Mentre Serge si scompone per gli insulti riferiti al suo acquisto, Marc apre un’altra ferita, rendendosi conto di non essere più apprezzato come un tempo dall’amico, lui che si sentiva benvoluto per la sua stranezza, per la sua distanza voluta e ricercata dal resto dei benpensanti. In una delle sue parti, infatti, ammette: «Ero lusingato. Ti sono sempre stato grato perché mi consideravi diverso dagli altri. Ho anche creduto che la mia diversità fosse una forma di superiorità, finché un giorno non mi hai detto il contrario». Si sommano, così, altre accuse come in un domino inarrestabile che, dall’acquisto di un quadro, arrivano fino alle scelte di vita dei tre amici, ai loro matrimoni futuri o alle loro relazioni sentimentali con donne sbagliate, con le parole di Marc che sembrano terminare un’amicizia: «Che senso ha continuare a vederci se ci odiamo?».
Nessuno si salva dal giudizio corrosivo e terribile che un amico riserva all’altro e Yvan col suo placido animo conciliante si beve le ipocrisie dei due amici fino a scoppiare, fino a non sopportare i commenti rivolti al suo prossimo matrimonio che lo fa dimagrire quattro chili per l’ansia. Commosso e fragile, piange perché il ramo d’ulivo tra i due amici è uno dei suoi pennarelli che Serge lascia a Marc perché disegni sul quadro bianco uno sciatore con la slitta. E questo “periodo di prova” per ritornare a capirsi e a essere amici è l’ironia dei rapporti umani che si crepano su confessioni feroci e diverse e si riprendono con leggerezza, ammettendo che in fondo un’amicizia vale più di un quadro d’artista. Alla fine della pièce Marc riconosce il valore del quadro dicendo: «Rappresenta un uomo che attraversa uno spazio e scompare». Ecco che vede le linee di colore e le diagonali che prima non riusciva a cogliere, ecco che il percorso umano che fanno i tre personaggi è quello di riconoscersi lesi e sclerotizzati quando ascoltano verità diverse dalle proprie e soprattutto proferite da chi consideravano loro amico.
Il talento della Yeza si mostra in questa scrittura asciutta di dialoghi che non nascondono nevrosi e dissapori ma anzi suonano reali e vicinissimi alla realtà. E anche la scelta di brevi e minuscole didascalie lascia spazio ai tre personaggi, come se riuscissero con il solo utilizzo schietto di parole a emergere fieramente uno a uno e a mostrare discrasie e malesseri comuni. Ma è anche un gioco di maschere che vogliono assumere i tratti di intellettuali che devono avere un’opinione su tutto, che si trascinano in litigi sul nulla, sul bianco, sulle striature di colore, sulla capacità o meno di comprendere l’arte contemporanea. Sono la bolla con cui l’uomo solletica i suoi neuroni, alla fine è facile riconoscersi e mentre Marc sporca di colore il quadro bianco col beneplacito di Serge, si prova lo sdegno di un turpe errore perché quella è arte. Allora forse è così che avviene la catarsi, quando indignati ci si sveglia dalle proprie ipocrisie, quando si riconosce e si ammette arrendevoli di essere come Marc, Serge e Yvan.
Anche se la fruizione artistica avviene attraverso il comodo e velocissimo utilizzo del telefono, sembra che sia ora più facile sputare giudizi affrettati su tutto, carpire segreti che neanche l’artista immaginava, ma tant’è, è il permesso che ci viene dato.
La reverenza che spetta a coloro che illustrano gli arcani segreti dell’arte contemporanea sembra ormai secondaria, perché favorita da quegli stessi ambienti che ridono di tutto prima che di se stessi. E anche se Serge riconosce a Marc di aver perso il senso dell’umorismo, forse è proprio quella sua impavida battaglia per l’arte e l’artista Antrios che fa ridere e commuovere, perché suona ridicola, perché saremmo i primi a chiamare quella tela bianca una merda. Nell’immediata e compulsiva visione di immagini e di foto di opere d’arte è possibile compiere analisi che alla lunga non hanno basi né senso di esistere, eppure scorrono fluide su qualsiasi piattaforma tecnologica e creano due gruppi posizionati agli antipodi.
Alcuni hanno un’idea più nostalgica come Marc che preferisce il suo dipinto di paesaggio con richiami fiamminghi e rimane fedele a quel lungo e peregrinante studio sui manuali di storia dell’arte, mentre altri hanno la sfrontatezza di Serge che non si vergogna e anzi pontifica sull’arte contemporanea, sul decostruzionismo, sugli amici che hanno un occhio di riguardo per l’arte concettuale.
Diventa così semplice per l’occhio umano processare informazioni e immagini di opere d’arte da credere di poter vendere la propria opinione e quindi verità come assoluta e intransigente. È come rinforzare la convinzione di essere nel giusto e quando è più difficile dare un giudizio concreto su un’opera ci si avvicina al comportamento passivo di Yvan che tende a emozionarsi davanti al quadro quando glielo chiede Serge e nega con vergogna quando glielo domanda Marc.
Se parlare di arte e mettere in difficoltà l’ascoltatore o addirittura l’amico era divertente e tormentato nel 1994, ora sembra ancora più fattibile e dimostra come la presunzione umana e la radicale posizione su un preciso argomento restino connaturati negli uomini, siano parte della natura cocciuta e volutamente coerente di ogni essere umano. Inventarsi critici, affabulatori di teorie, esperti di immagini e di arte è un modo per tenersi occupati, anche perché non basta più essere semplici estimatori. Entrare nel dibattito, immergersi e costruire fattivamente un’opera d’arte rende indietro il protagonismo di cui tutti sono affamati. Ma sazierà mai questa sovra esposizione e questa stessa lettura parziale attraverso il telefono, questa visione a metà? Forse Arte aiuta proprio in questo, a rendere meno protagonista il proprio ego e a credere che anche l’altro, come un amico stretto e fidato, possa avere un’idea diversa se non opposta alla propria ma non per questo meno credibile.
A cura di Anna Pellizzoni