Leggere Majgull Axelsson è un’esperienza catartica, formativa, totale. La sua scrittura ha la capacità di esprimere concetti crudissimi, raccontare storie spesso taciute e per questo poco conosciute, mostrandocele grazie all’uso di punti di vista spesso inaspettati e a uno stile chirurgico. Chi è Majgull Axelsson? Scrittrice, giornalista e drammaturga svedese che in molti qui in Italia hanno già avuto modo di apprezzare grazie a Io non mi chiamo Miriam, un romanzo toccante frutto di anni di studio e di ricerche sul porrajmos, lo sterminio di migliaia di persone rom e sinti messo in atto dai nazisti purante la seconda guerra mondiale, con protagonista Miriam, al tempo Malika, ragazzina che riuscì a sopravvivere e a fuggire in Svezia sotto falso nome.
In Svezia certe parti del passato sono davvero così passate, annientate e sconfitte che si può fingere di non riconoscerle anche quando tentano di imporsi a tutti i costi.
A quasi tre anni da questa prima pubblicazione per Iperborea, e sempre nella traduzione dallo svedese a cura di Laura Cangemi, Majgull Axelsson ritorna in Italia e lo fa indagando sulla questione degli «ospedali speciali» in Svezia, veri e propri manicomi, e in particolare sugli esperimenti portati avanti tra il 1945 e 1955 ai danni dei pazienti nel manicomio di Vipeholm a Lund. La tua vita e la mia racconta bene proprio questo e molto altro.
Dio santo! Sono a Lund. Perché diavolo sono scesa dal treno a Lund? È un’idiozia. Sono una demente.
Protagonista e voce narrante, anche questa volta, è una donna: Märit, ex giornalista quasi settantenne che, mentre fa ritorno in treno da Stoccolma al suo paesino d’origine per festeggiare insieme al suo gemello Jonas il compleanno di entrambi, si trova a scendere, apparentemente spinta da un moto del tutto irrazionale, a Lund. Non tornava qui, nel posto in cui aveva studiato e che è legato a doppio filo al suo passo, da almeno cinquant’anni. Subito Märit si ritrova sopraffatta dai ricordi e comincia a rivivere quegli anni in una serie di flashback più o meno forti.
Così, come prima cosa, la Märit di oggi, la vedova ex giornalista un po’ provata dal viaggio e dal peso del passato, scende dal treno alla fermata sbagliata e poco dopo si ritrova nel cimitero di Lund con un obiettivo, quello di trovare la tomba che sovrasta la fossa comune in cui sono sepolti i pazienti di Vipeholm. Tra i resti di tutti quei pazienti, ci sono anche quelli di suo fratello maggiore Lars.
Lars, povero Lars. Lars-lo-Svitato. Lasse-lo-Sgorbio. Amatissimo da Märit e dalla loro dolce mamma, protetto per quanto possibile dal loro buon padre, preso in giro e schifato da tutti gli altri membri della famiglia, compresi il gemello Jonas, la nonna e il nonno-padrone. Dopo un lutto improvviso che cambia la vita di tutti, Lars verrà internato e Märit sarà l’unica a battersi per lui: va a lavorare d’estate a Lund, comincia a studiare medicina per lui, lo va a trovare e fa di tutto per vederlo, anche se Lars non la riconosce più, è legato al lettino con le cinghie e urla, perché è spaventato. Continuerà a cercarlo sempre, anche ora. Persino dopo cinquant’anni, ricordandolo su quella tomba che non neanche riusciva a trovare.
Faccio un passo indietro. Quel posto mi nausea. Possibile che il destino di mio fratello fosse finire qui? Era qui che era diretto quando mia madre gli rimboccava le coperte la sera, quando mio padre gli passava la mano sui capelli ispidi, quando stava seduto in camera sua a disegnare? Qui? «Un famigliare?»
In La tua vita e la mia, la Märit di Majgull Axelsson si sente in colpa per aver fatto di più per quel fratellone bambino così ingiustamente vessato, legato e, presumibilmente, malmenato. Non solo: non è mistero che a Vipeholm i malati vengano trattati alla stregua di cavie, specialmente per quanto riguarda esperimenti per debellare la carie dentaria che, in quegli anni, rappresentava un serio problema per la popolazione svedese. I pazienti venivano costretti ad ingurgitare una quantità spropositata di dolciumi e zuccheri allo scopo di studiare i diversi tipi di cari. Quando Märit si rende conto personalmente della disumanità a cui erano sottoposti i malati Vipeholm, le viene da pensare che il personale dell’ospedale psichiatrico trattasse quelle persone proprio come accadeva nei campi di concentramento. Violenza, reclusione ed esperimenti inclusi.
È un romanzo sofferto, La tua vita e la mia. Un viaggio reale e figurato nel passato, in cui la compassione per sé stessi e per i propri errori è minore di quella riservata agli altri, senza che questi altri siano i malati che tutti rifiutano. Majgull Axelsson struttura abilmente un faccia a faccia con sé stessi, in cui i pensieri non si acquietano mai e Märit finisce persino a fare i conti con un fatto molto condiviso dagli studi medici al tempo, ossia quello delle «tare ereditarie», in cui lei stessa si sente totalmente dentro nella persona dell’Altra. L’Altra è sua sorella, ed è finita dentro la sua testa. È una voce, le parla come se fosse la sua coscienza. Un incubo a cui la donna si sente condannata da tutta la vita, ed è uno dei punti centrali di La tua vita e la mia.
Man mano che si va avanti con la lettura, si tocca con mano quella capacità di Majgull Axelsson di condensare tutti gli elementi narrativi in qualcosa di più ampio: un’aperta critica alla Svezia del tempo e alla tendenza di prediligere il sano e il forte a discapito del più debole. Le pagine scritte dalla Axelsson ci trascinano in una spirale in cui passato e presente finiscono per essere sovrapposti, in cui il dolore è tanto ed è visibile, in cui quello che viene raccontato è sì parte di un romanzo, ma dev’essere successo per forza. Anche per questo, La tua vita e la mia non vi deluderà.