Mettete insieme afrobeat, ethiopian jazz, araldica bizantina, cous cous, musicisti italiani e olandesi, vociare di gente di porto, mediterraneità funky, un po’ di polvere desertica, Fela Kuti, Mulatu Astatke e compagnie belle, pomodorini essiccati su una finestra di una casa in cui si ascoltano i Dirty Beaches, anticiclone africano tinteggiato di toni cupi, un’aura di mistero che aleggia intorno alle loro identità e alle loro svariate nazionalità, ovviamente un po’ di psichedelia d’ordinanza (di ‘sti tempi…), lo-fi alla menta, colori spessi dei disegni del maestro Toccafondo, et voilà, Signori, la Tigre è servita. Li abbiamo intervistati, e se siete curiosi ecco cosa ci hanno raccontato i misteriosi C’mon Tigre.
Come sono i nati i C’mon Tigre e qual è l’idea che vi sta alla base?
Il progetto nasce come naturale conseguenza di idee appuntate, viaggi, e persone incontrate. Il vero appiglio è stata la musica, il principio di base è la condivisione di un qualcosa che fosse derivato da una contaminazione, da più esperienze condivise. Poi spesso capita che i progetti, quando validi, sviluppino una loro precisa personalità, come un’anima decidono loro dove andare a parare, e bisogna assecondarli.
Che cosa è la tigre? Voi l’avete domata o continuate a braccarla?
La Tigre è una figura molto complessa in tutte le culture del mondo, è un animale la cui meraviglia, ferocia e regalità si riassumono in un’unica forte immagine. Nella cultura Asiatica tra le tante cose la Tigre simboleggia la virtù del coraggio così come la necessità di migliorarsi. Noi cerchiamo di non perdere il contatto con la nostra memoria, per quanto breve possa essere. C’mon Tigre è un’esortazione contro la pigrizia atavica dell’uomo. È un invito. La Tigre non si doma né si bracca, si contempla.
Qual è per un gruppo come il vostro, il valore di concetti come “contaminazione” o “terzomondismo” (termine che ho letto spesso associato al vostro nome)?
Il valore della contaminazione è tutto, in generale, e lo è stato per questo lavoro in particolare: una cosa terza, che deriva da differenti teste, concezioni, esperienze e culture non può far altro che arricchire chiunque ne fruisca. Veniamo dall’area mediterranea, il nostro epicentro, per cui è stato naturale l’avvicinamento ad un certo mondo, portiamo nelle nostre esperienze quelle terre, respiriamo quell’aria, viviamo e conosciamo quegli spazi.
E quello di “sperimentazione”?
No, non pensiamo si possa definire una sperimentazione la nostra.
Personalmente tra le influenze dal passato e dal futuro io ci sento Fela Kuti, Orlando Julius e gli Heliocentrics fino a gruppi come i Melt Yourself Down. Siete d’accordo? E quali altri gruppi passati e presenti vi influenzano maggiormente?
Abbiamo una gran stima di Malcolm Catto e del progetto Heliocentrics, i paragoni ed i nomi cui riferìrsi sarebbero troppi, posso citartene uno su tutti: Mulatu Astatke. Di sicuro lui è stato un forte riferimento, l’ethiojazz, quel tipo di attitudine e di suono. Speriamo di poter collaborare con lui in futuro, sarebbe bellissimo. Il resto deriva dagli ascolti di una vita, veramente a 360 gradi perché ci piace fruire di ogni tipo di musica: ascoltiamo moltissimi generi, difficile distinguere chi influenzi più e chi meno. Posso dirti chi abbiamo ascoltato di recente: Xenia Rubinos,The Shaolin Afronauts, Unknown Mortal Orchestra, Dirty Beaches. Per quelli del passato la lista sarebbe infinita, te la risparmio.
Il vostro ultimo disco è frutto di un viaggio, ce ne potreste parlare? Cosa avete tratto da ognuno dei continenti?
Vivere nuovi luoghi e condividere è la cosa più importante alla quale si possa dedicar tempo, perché poi da lì tutte le nostre attività acquisiscono un valore aggiunto inestimabile. A dire il vero non c’è un viaggio di riferimento, ce ne sono diversi, distribuiti nel tempo, ci sono i luoghi e le persone soprattutto. Abbiamo registrato in maniera itinerante, alcuni luoghi tra gli altri Zagabria e Brooklyn NYC, e ciò ha necessariamente influenzato l’attitudine al lavoro, Abbiamo anche avuto registrazioni da persone autoctone, in alcune parti dell’Africa ad esempio, ed aver potuto attingere a piene mani dalla loro esperienza è ciò che di più prezioso siamo riusciti ad avere. È stato un percorso denso di sfumature.
Da quali elementi estetici avete attinto per creare il vostro immaginario visivo e in che modo l’uso dell’artwork, con ad esempio la collaborazione con Toccafondo, si concilia con la vostra ricerca musicale?
Abbiamo usato elementi tradizionali soprattutto del Medio Oriente, attinto a piene mani dal patrimonio degli arazzi, delle pitture murali, dei colori fatti con la terra. Abbiamo portato tutto questo ad un livello altro, mescolandolo con l’arte contemporanea, toccando punte altissime quando ci siamo confrontati con l’irrequietezza dei colori di Toccafondo e la crudezza dei tratti di Zezelj. La stessa identica cosa l’abbiamo fatta musicalmente parlando, attingere dal passato e aggiungere il presente. Questo è ciò che in realtà ogni essere umano fa incoscientemente. Nel nostro caso è semplicemente un atto conscio.
Per chiudere, domanda scontata quanto urgente: perché la scelta di celare la vostra identità?
Abbiamo semplicemente preferito convogliare l’attenzione sul progetto nel suo insieme, sulla musica e sull’immaginario creato, con un occhio di riguardo verso tutti coloro che ci hanno onorato della loro collaborazione. Tutta questa storia del mistero è frutto della pigrizia della stampa, che ha cavalcato il nostro anonimato come se fosse una tra le cose interessanti di cui parlare a proposito del progetto. Parliamo di musica, non di nomi. Tutto qua.