La terza stagione di True Detective è un ritorno alle origini

a cura di Aurora Marconi

Lo sceneggiatore Nic Pizzolatto ritorna sugli schermi, dopo quattro anni, con la terza stagione della serie antologica True Detective: dopo una seconda stagione lenta e non apprezzata dal pubblico, Pizzolatto ritorna sui suoi passi — “cambiare tutto, affinché tutto resti uguale” scrive Tomasi di Lampedusa — e riporta gli spettatori nel profondo sud statunitense in Arkansas, con un cast da Oscar.

È il 7 novembre 1980 quando i detective Wayne “Purple” Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff) sono chiamati per indagare sulla scomparsa di due bambini, fratello e sorella, non tornati a casa dopo essere usciti in bicicletta. Le testimonianze si rivelano inconsistenti e gli indizi confusi indirizzano il caso sempre di più verso un delitto legato alla pedofilia. I due detective inoltre si scontrano con una comunità chiusa e retrograda, che si scaglia contro le minoranze: discriminazione e razzismo renderanno ancora più difficile la risoluzione del caso.

Hays è il protagonista, ma come può lo spettatore far affidamento su un testimone imperfetto, dai ricordi sempre più sfumati a causa di una demenza senile che avanza? Niente nel corso della storia è certo, tutto può essere messo in discussione. La terza stagione ci fa addentrare nella “selva oscura” dei ricordi, della natura fallace della memoria. Il crimine è quasi un pretesto per indagare l’animo umano: il vero nemico è il tempo che passa, inesorabile e inevitabile. Rust Cohle nella prima stagione disse “time is a flat circle”: siamo destinati a ripetere all’infinito, in maniera circolare gli eventi significativi della nostra vita, senza pace e senza trovare mai una soluzione. Nella terza stagione è Amelia (Carmen Ejogo), moglie di Purple, a parlarci del senso del tempo: “Il tempo è il fuoco in cui bruciamo” e alla fine di esso non ci resta nulla.

True Detective

Voluti e palesi sono i numerosi richiami alla prima stagione: i detective, come Rust Cohle e Martin Hart, presentano delle personalità opposte, ma il rapporto tra i due è messo in secondo piano, per poi essere approfondito solo in un secondo tempo. Il crimine è differente, ma resta quella volontà di indagare il marcio della società e Pizzolatto lo fa scavando nell’animo di chi la plasma e la vive: l’uomo. Di nuovo una storia sui poveri e sugli innocenti che sono travolti dal potere di chi ha i soldi e possono solo rimanere in silenzio. L’inazione dei detective, significativa rispetto alla prima stagione, porta le indagini a un punto morto senza che vengano stabilite le responsabilità del delitto.

La narrazione, ancora una volta, si sviluppa su tre livelli temporali – 1980, 1990, 2015 – ed è presentata attraverso gli occhi di Hays, un uomo tormentato dal caso più importante della sua vita fino alla vecchiaia. La scomparsa dei due bambini non è fondamentale come Pizzolatto vuole far credere agli spettatori: Hays, attraverso questo crimine, cerca di ricostruire il rapporto con la moglie Amelia; indagando e scavando nel loro passato riuscirà, almeno in parte, a colmare quel vuoto dentro di sé. Wayne è infatti un uomo che nel corso della sua esistenza ha cercato di risolvere i problemi degli altri, di trovare qualcosa che lo distraesse dal suo vero problema: non sapere chi lui sia veramente e quale sia il suo scopo su questo mondo.

È grazie ad Amelia e al suo libro che il detective riuscirà a trovare un po’ di pace dentro sé stesso – seppure non colmando totalmente quel vuoto dell’anima – e si riavvicinerà alla sua famiglia, coloro che lo hanno sempre salvato. Forte è qui il richiamo alla prima stagione, nella quale Rust Cohle, condannato all’autodistruzione, riesce a trovare un riscatto, una speranza, nella figura dell’amico e collega Martin Hart. L’amicizia e l’amore sono quei due elementi che danno un barlume di gioia e di bellezza in un mondo oscuro. Pizzolatto sa che i cattivi non possono essere sconfitti e non pagheranno per i loro delitti, o perlomeno non sempre, ma l’uomo ha bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa per cui essere ottimista.

La storia che Pizzolatto ci vuole raccontare veramente è quella di una mente fumosa. Le sigarette fumate in continuazione dai personaggi e il fumo sono la metafora dell’opacità degli eventi, irrisolti e confusi. La vera indagine riguarda, quindi, la complessità psicologica e la memoria vacillante del detective Hays, per tutta la sua vita alla ricerca di qualcosa che gli permetta di comprendere sé stesso, il rapporto con la moglie e il caso più importante della sua carriera. La ricerca si rivela fallimentare, la verità è sfuggente e al protagonista non resta che arrendersi all’oscurità della sua mente e dei suoi ricordi.

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