La spietata poesia di Tyrannosaur, o del cinema indipendente britannico

C’è un cinema indipendente, con una forte connotazione identitaria che ha radici tra l’Inghilterra “di mezzo” e quella settentrionale, improntato a un realismo “poetico” che con delicatezza espressiva affronta l’ambito problematico delle zone periferiche, intese sia in termini spaziali (la periferia urbana ma anche le città di provincia in rapporto con i grandi centri abitati) sia dal punto di vista sociale: i personaggi che animano queste pellicole sono outsider, vivono in un contesto marginale attraversato da conflitti interni: le cosiddette “zone calde”, luoghi disseminati di povertà, incubatori di devianze che si manifestano nella piccola criminalità e nel bullismo, dove crescere significa anzitutto sopravvivere all’assenza di stimoli culturali e alla violenza strisciante tra palazzoni popolari e strade desolate. Le storie narrate non possono essere in nessun modo disgiunte dal micromondo dei protagonisti: lo spaccato della comunità in cui essi si muovono viene offerto – in maniera cruda – dal racconto della loro quotidianità, dei piccoli-grandi sforzi per guadagnarsi un brandello se non proprio di felicità, di una pacificata identità. La retorica latita e lo sguardo del regista-sceneggiatore, esente da qualsiasi forma di giudizio o condanna, si esprime nella definizione di uno stile asciutto che utilizza solo “quello che serve nella misura in cui serve”, eliminando qualsiasi forma di spettacolarità non funzionale all’equilibrio tra l’interiorità dei protagonisti e la cornice socio-culturale con cui hanno a che fare, liaison sui cui è interamente costruita – e nodo per cui risulta convincente – la caratterizzazione dei personaggi.

La cura della fotografia, i silenzi, i dialoghi secchi e contraddistinti da una parlata ruvida, con massimo impiego di espressioni gergali e dialettali, l’uso moderato della colonna sonora sono gli stilemi di un cinema che racconta (e denuncia) una particolare realtà ma che, nel farlo, non rinuncia a un profilo estetico di elevato livello, evitando di “urlare” messaggi che saprebbero di facile retorica e affidando la veicolazione di contenuti e tematiche di carattere sociale al passaggio da una prospettiva particolare, quella dell’individuo, a una generale, il mondo marginale in cui si muove e dai cui valori è inevitabilmente condizionato. I charachter che ne vengono fuori hanno aspetti sfumati e contraddittori, si trovano a compiere atti di cui non vanno fieri eppure necessari, il loro non essere fedeli a un conformismo etico spinge chi guarda a porsi frequenti interrogativi sulle loro azioni/reazioni: antieroi nella loro veste di “common man” ma eroici nella misura in cui, nell’attraversare la propria realtà, cercano di piegarla, di distillare a partire da essa poche preziosissime gocce di una giustizia sociale che pare essersi estinta.

Il più conosciuto esponente di questo filone cinematografico è probabilmente Shane Meadows (è emblematico il suo “This is England”) e non è un caso che la pellicola di cui ci apprestiamo a parlare veda alla regia Paddy Considine, che con Meadows stringe, da lungo tempo, un sodalizio artistico: oltre a comparire in molti dei suoi film in qualità di attore, collabora con lui alla scrittura di soggetti e sceneggiature (“Dead Man’s Shoes”, “This Is England”).

Tyrannosaur”, del 2011, segna l’esordio di Considine come regista di opere di ampio respiro (il film è il risultato dello sviluppo di un suo precedente cortometraggio: “Dogs Altogether”) e s’inserisce perfettamente, per ambientazione, stile e tematiche, nel filone appena citato. Partendo dalle storie individuali di Joseph, vedovo di mezza età, e Hannah (interpretati magistralmente da Peter Mullan e Olivia Colman) si affronta il macrocontesto di cui essi costituiscono tanto i frutti quanto, paradossalmente, gli antagonisti: sono, così come gli altri personaggi, malinconica e sconcertante sineddoche di un ambiente lacerato da problematiche che vanno dall’alcolismo alle discriminazione razziale agli abusi domestici.

Un dolore rabbioso appare animare ogni azione di Joseph e portarlo a minare qualsiasi relazione con gli altri: se dovessimo tentare un audace paragone con l’ambito musicale, potremmo definire gran parte del film come la ballata solitaria di uomo vittima di se stesso, i cui spasimi si concretizzano in un’azione distruttiva che è anzitutto autodistruttiva: uno dei più inquietanti prodotti di questa furia ci viene offerto nella scioccante sequenza iniziale in cui, accecato dall’ira e alterato dall’alcol, uccide a calci Bluey, il suo cane.
Il mondo di Joseph è costituito dai bar in cui annega il proprio spirito, dalla deprimente strada di periferia su cui s’incammina per tornare a casa (e lungo la quale ha modo di salutare il piccolo Sam, figlio di una sua vicina di casa, che in virtù della sua innocenza si presta bene a divenire vittima di un mondo che si basa sulla feroce legge del più forte), dall’abitazione scialba in cui vivono il suo migliore amico Jack, malato terminale, e sua figlia e della sua stessa, altrettanto desolata, abitazione.

L’incontro con Hannah, proprietaria di un second-hand shop, e il legame che si creerà fra loro porterà Joseph a coltivare un approccio ambivalente nei suoi confronti: da una parte, il suo istinto avverte la bontà d’animo e la gentilezza di lei e lo spinge a continuare a visitarne il negozio per vederla; d’altro canto è però consapevole che una relazione, di qualsiasi tipo essa sia, significa anche prendere in carico su di sé gli aspetti critici e disfunzionali dell’altro, aspetti che, nel caso di Hannah, hanno le sembianze degli abusi domestici e sono inaspettatamente più gravi di quanto inizialmente appaiano.

Le personalità e le diverse storie di Joseph e Hannah – oltre agli intrecci collaterali e co-funzionali come quello del piccolo Sam e della sua situazione familiare, quello di Jack e del rapporto compromesso con sua figlia – emergono un po’ alla volta dai luoghi, dalle azioni, dai dialoghi: il regista mantiene un ruolo distante, esterno alla narrazione, tacendo su ciò che non viene mostrato, delegando allo spettatore le responsabilità dell’interpretazione e del giudizio. 

Prima si diceva, a proposito dell’uso della colonna sonora che caratterizza questo cinema, che nulla è di troppo. Nel caso di “Tyrannosaur”, l’utilizzo della musica è estremamente parsimonioso: i momenti emotivamente più coinvolgenti vengono sottolineati grazie all’ausilio di fraseggi composti ad hoc (firmati da Chris Baldwin e Dan Baker), totalmente strumentali, dilatati e sospesi, dal gusto mestamente post-rock. Ma è un austero silenzio a far da padrone nella maggior parte di casi coerentemente al tipo di storie narrate e allo stile scarno del racconto stesso, tendente a mettere in luce personaggi, scenari e azioni nella loro malinconica nudità. Quando la musica compare per la prima volta lo fa “in primo piano”, all’interno della narrazione: è il caso delle canzoni “I’m A Man You Don’t Meet Every Day” dei Pogues, cantata da uno degli invitati alla celebrazione che segue il funerale di Jack, migliore amico di Joseph, e del brano “Hi Jack”, la cui performance e composizione si deve a Chris Wheat in persona, cantastorie e busker di Leeds, cittadina dell’Inghilterra settentrionale dove è stata effettuata parte delle riprese. Dare spazio alla musica indipendente locale è una scelta che già prima di Considine aveva attuato Meadows, ad esempio nel costellare la colonna sonora di quel piccolo capolavoro che è “Dead Man’s Shoes” di brani musicali firmati da esponenti di quella scena artistica, dando così vita a una proficua collaborazione tra chi produce musica e cinema che non trova posto nel circuito mainstream.

Dalla dimensione prettamente interna alla diegesi ci si sposta a quella esterna, sempre durante le sequenze relative alla celebrazione che segue il rito funebre: la melodia è quella struggente di “Sing All Our Cares Away” di Damien Dempsey.
Ma più degli altri brani e proprio in virtù di un’estrema rarefazione del fenomeno musicale all’interno della pellicola, sarà la voce di Nick Hemming a restare impressa nella mente di chi guarda: essa contrassegna la sequenza finale con la bellissima “We Were Wasted”, firmata da The Leisure Society (per inciso, Hemming fece anche parte della band She Talks To Angels insieme a Paddy Considine e Shane Meadows), alle cui note viene assegnato l’importante compito di chiudere il film. Non solo, esse sono fondamentali nell’accogliere e accompagnare quel silenzio interiore, riflessivo e un poco annichilito, sospeso tra sgomento, mestizia e volontà di continuare a non distogliere lo sguardo anche dalle realtà più scomode, che prende possesso di chi ha appena terminato la visione della spietata poesia per immagini di “Tyrannosaur”.

Tyrannosaur OST:

Musiche originali di Chris Baldwin & Dan Baker

Canzoni:

1. “Wand’rin’ Star” –Nick Hemming (The Leisure Society), cover of Lee Marvin’s 1969 hit song from the western musical film “Paint Your Wagon”
2. “This Gun Loves you Back” – Chris Baldwin (written By Paddy Considine & Chris Baldwin)
3. “Truth or Glory” – JJ All Stars
4. “Saturday Night” – JJ All Stars
5. “Psycho Mash” – JJ All Stars
6. “Hi Jack” – Chris Wheat
7. “Sing All Our Cares Away” –Damien Dempsey
8. “We Were Wasted” – The Leisure Society

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