Dicembre 1999. In una grande villa in un’isola senza nome del Golfo del Messico – entrambe spartiacque tra infiniti mondi – vengono indetti tre giorni e tre notti di festa per salutare la nascita di Vincent, e la fine di un secolo.
Questa la trama sottile de La Sete, edito in Italia da Safarà (e tradotto da Federica Di Lella), pubblicato per la prima volta nel 1995 e vincitore, l’anno successivo, del Prix du Gouverneur général, romanzo che inaugurava il ciclo Soifs della pluripremiata scrittrice canadese Marie-Claire Blais.
Introdotto da una citazione da Le Onde di Virginia Woolf – con la quale in qualche modo la scrittrice, nata a Québec nell’autunno del 1939, sembra dialogare per tutto il libro – La Sete è un romanzo costruito su un unico, lunghissimo flusso di coscienza corale che rifiuta una punteggiatura ordinaria, gli a capo e una precisa definizione delle voci coinvolte. Una struttura straordinariamente polifonica che – come su diversi canoni – alterna le voci di differenti personaggi, uomini, donne, giovani, anziani, lasciando il lettore in balia di una forma che poco a poco si rivela conturbante e complessa e che diventa progressivamente la ragione stessa dell’opera.
Sarebbe stata una sera di pioggia, avrebbe fumato vicino all’acqua, con i piedi nudi infilati nei sandali, un impermeabile gettato in fretta sulle spalle, l’odore di quella fiamma nell’aria umida, per l’ultima volta, chissà come avrebbe giudicato Laura, o qualsiasi altra donna che avesse ucciso i suoi figli, che ne sapevano gli uomini di quel flusso di sangue mestruale che ribolliva febbrile nel cervello come nel profondo del ventre dove si agitava la vita, tra amore e rabbia, sempre più donne avrebbero subito la pena capitale, che ne sapeva suo marito di quel turbinio del sangue, aveva mai messo al mondo un bambino lui…
Il flusso inizia catapultando immediatamente il lettore nella vita o, meglio ancora, nei pensieri e nelle riflessioni dei primi protagonisti del racconto: Claude, un giovane giudice e sua moglie Renata, avvocato. In un’isola – che potrebbe essere il paradiso di Key West dove la scrittrice canadese vive dagli anni settanta – Renata sta passando i giorni di convalescenza dopo un delicato intervento subito a New York per la rimozione di un tumore ai polmoni. È lei il primo personaggio in cui si manifesta la sete del titolo: una sete ramificata e complessa, di vita certamente, di esperienze, di rinascita ma anche di rischio, di sesso, di giovani uomini, di parità fra uomo e donna – rappresentativa in tal senso è la distanza di ruolo tra lei e il giovane marito – e di giustizia, un tema questo – quello del rapporto fra giustizia ed emarginati, fra colpevoli e necessità di recupero – che attraversa da sempre l’opera della scrittrice. Se Renata fin dalla sua prima comparsa – con il suo indiscutibile fascino, la carica erotica, la mania verso sigarette e accendini – rappresenterà una sorte di leitmotiv che con le sue apparizioni nel seguito del racconto aiuterà il lettore a trovare una sorta di fil rouge, numerose sono le altre voci di quest’affresco che, pagina dopo pagina, sempre più si configura come un urlo collettivo, uno specchio violento della condizione umana.
Altro personaggio cardine – della prima metà del libro – è Jacques, professore esperto di Kafka, che rivive nel suo letto di morte, divorato dall’Aids, l’esperienza della propria Metamorfosi, ossessionato dalla bellezza che è sfuggita via inesorabilmente e dal desiderio declinato ormai al tempo del rimpianto di giovani corpi maschili. Al suo immergersi in tramonti malinconici, in vespri che sono il contraltare della metafora degli ultimi giorni della sua vita, s’intrecciano i pensieri del pastore Jérémy, suo vicino, in preoccupazione costante per i suoi figli, sospesi tra cattive frequentazioni – i “Negri Cattivi” – e l’ombra di un nuovo Ku Klux Klan.
Il terzo personaggio – per così dire – è rappresentato ancora da una coppia. Quella formata da Mélanie, giovane donna colta e abbiente, madre di Vincent – e a sua volta figlia di una donna chiamata semplicemente Madre che si ostina a sognare per la figlia impegnata un futuro in politica ed è tormentata, come tutti, dalle possibili potenzialità di chiunque la circonda e dall’onnipresente rischio di deragliamento che marca indelebilmente ogni preziosa vita – e da suo marito Daniel, giovane scrittore che ha finalmente finito un libro – Strani Anni – rifiutato dagli editori. Un libro dove le atmosfere «tendevano a stingere su chi lo leggeva, Daniel in un certo senso scriveva con la candeggina sulla stoffa» come nelle parole del suo giro di amicizie letterarie: adulti, anziani che discutono del suo talento, che accomunano la sua opera a una visione infernale tirando in ballo le allegorie di Hieronymus Bosch e i dipinti di Max Ernst e che, in una certa misura, funziona quasi come specchio meta letterario della scrittura della stessa Blais.
E in fondo, pensava Renata, lei e Claude, che si erano ritrovati improvvisamente l’uno accanto all’altra davanti al mare, attratti dai profumi di una notte odorosa, non ricordavano un po’ una coppia di fuggiaschi che faceva l’amore in fretta e furia nella promiscuità di una camera d’albergo, prima di una partenza, di una separazione, in un’atmosfera febbrile di clandestinità, uno specchio sul soffitto della camera aveva riflesso le domande audaci che si erano fatti mentre si baciavano, si avvinghiavano l’uno all’altra, e a un tratto, nel silenzio della notte, lo specchio aveva rimandato l’immagine di quei corpi smarriti, ora immobili, intorpiditi nello stesso benessere…
La nave dei folli, uno dei capolavori di Bosch, che viene più volte accostato al romanzo scritto da Daniel, appare quasi una metafora dei protagonisti del libro oltre che, va da sé – della condizione umana. C’è in questo libro – che ha avuto una gestazione ventennale – qualcosa che richiama il marcire della bellezza, l’odore dolce e acre di frutta rigogliosa e matura sul principio della sua marcescenza. È un affresco corale di vite in transito e per questo costantemente in pericolo, tese come un filo tra la vita e la morte, ed è su quel filo che va in scena questo teatro delle possibilità tra l’attesa della meraviglia e il terrore del piede in fallo.
L’isola, questo suo essere senza nome che la colloca quasi in una dimensione astorica, epica, eppure così contaminata dagli oggetti della quotidianità, da sentimenti e turbamenti contemporanei, appare come l’altra, grande, vera protagonista del romanzo, un’Itaca sfuggente e violenta, una fata morgana che in preda ai deliri del naufragio si configura come una salvezza fittizia, come una speranza svanita.
Nei percorsi tortuosi, nei tanti fili che si annodano senza mai sciogliersi nel libro escono però fuori trame sottili ma decise che provano a raccontare alcuni temi cari a Marie-Claire Blais. La giustizia, prima di ogni cosa: fin dal primo incontro con Renata e Claude emerge il rapporto tra Stato e delinquenza, tra Legge e crimine. Nel contrasto tra la figura di Claude, giovane giudice determinato a colpire e punire secondo i dettami del massimo della pena e nella visione – muliebre e materna – di sua moglie Renata che guarda, invece, alla Legge secondo i dettami della giustizia sociale, del recupero dei criminali. Questo contrasto che si continuerà a percepire anche in altre delle linee narrative del libro con gli altri, i diversi, gli esclusi, i nativi dell’isola spesso visti come potenziali anime pronte a deragliare o a colpire nella notte buia (La Sete è fortemente connaturato ai colori del crepuscolo e della notte) contiene dentro di sé l’altro tema ricorrente nel romanzo, una linea che possiamo definire in maniera essenziale come femminista e che prova a distinguere nettamente un approccio maschile da quello femminile senza escludere la tendenza dominante e violenta del primo e quella calda e accogliente della seconda.
Mentre provava quella languida sensazione di sete, come se la tara dell’abbandono, del rifiuto, ereditata attraverso i secoli, l’avesse annichilita di colpo, ricordandole il dolore della sua infinita manchevolezza, ma sotto quel cielo che le bruciava gli occhi mentre sentiva risuonare nel silenzio lo scricchiolio appena percettibile delle conchiglie della stradina, che si frantumavano sotto le sue suole, quella stessa sete che la divorava l’avrebbe guidata verso la sua camera, dove, stendendosi sul letto da cui si erano alzati da poco, su quelle lenzuola spiegazzate e ancora umide di sudore, avrebbe sentito placarsi la sua sete bevendo avidamente dalla rilucente brocca d’acqua che avevano in camera su un mobile, quella sete le avrebbe dato lo sguardo obliquo, un po’ osceno, pensava, che aveva quando cercava le sigarette, l’accendino, il portasigarette d’oro, o quando giocava al casinò spinta dall’impulso di perdere tutto…
La sete del titolo domina le più di duecento pagine che compongono il libro, come desiderio quasi indotto dalla penna di Marie-Claire Blais in risposta a una scrittura che si fa sempre più frammentaria, a una natura che acquisisce sempre più un’aria ostile, temibile, mefitica, nelle ombre reali o immaginarie che affollano la mente dei protagonisti sospesi – come sono – in un presente indefinito, in un tempo etereo – quello della lunghissima festa – che sembra rimandare il momento della verità, la curva del tempo in cui ciascuno troverà la propria nemesi. Tutti gli attori di questa tragedia che è rappresentata ne La Sete sono dominati da un senso di preoccupazione costante rivolto tanto al passato quanto al futuro. E se sul primo grava il senso dell’irreparabile già compiuto di destini e scelte che hanno condotto in maniera chirurgica al presente, sul secondo incombe, invece, il senso pressante di una minaccia, un fato avverso che debba quasi necessariamente compiersi e che spinge verso la paura. Del resto sull’allegria della festa, sugli abiti bianchi, sull’orchestra di giovani musicisti pesano come un macigno due realtà inquietanti: quella degli ultimi, dei poveri dell’isola che, come in un incubo, sembrano accerchiare quest’oasi di cultura, di benessere, di modernità e ricchezza rappresentati dalla villa e, ancor di più, una malattia segreta che pare aver colpito il piccolo Vincent protetto dall’umidità dell’esterno in una stanza dov’è osservato di continuo affinché il suo respiro possa sempre essere calmo e sotto controllo.
Romanzo dunque complesso che alimenta senza remore la propria complessità, e si dà in pasto al lettore in maniera totalizzante ma quasi sfidandolo a capire cosa trarre, cosa leggere, cosa percepire dietro l’abbondanza di parole, dentro a un flusso di suoni e lingue che non dissetano ma che, come acqua salata, alimentano il bisogno di conoscere, di sapere, di trovare un senso alla storia e alla vita.