a cura di Cecilia Ghidotti
Ad una prima impressione, il lungomare del Lido di Camaiore colpisce soprattutto per il dato anagrafico: i turisti di inizio stagione si dividono tra over-sessanta e under-sei. I primi si affannano a rincorrere i secondi che scattano in piccole fughe in avanti, attratti dalla fantasmagoria delle giostrine a 2 euro alla corsa.
L’estate e La Prima Estate cominciano domani ma le temperature e l’aria pesante di umidità attivano percezioni corporee legate a una stagione già avanzata e pronta al declino. O forse è solo l’effetto della ruota panoramica che corona pigra un’insegna MARTINI, unico segnale che, in questo lunedì di giugno, ricorda che questo posto era il centro di qualcosa. Che lo sia ancora o ambisca a tornare a esserlo – magari nei weekend o più avanti nella stagione – non potrò verificarlo perché la mia permanenza al camping VERSILIA-MARE si limita a 48 ore.
Ho scelto questo campeggio perché è a pochi passi dalla sede del festival, il parco Bussola Domani o Ex Bussola Domani, non ho capito bene, il geotag di Instagram restituisce risultati ambigui.
Fino a questo momento Bussola per me ha avuto due significati (ok tre, ma il primo lo darei per scontato): il locale della Versilia protagonista delle estati del boom economico – che però non si trovava a qui, ma a Marina di Pietrasanta, specifico per non far torto ai toscani in ascolto – e i tre leggendari dischi dal vivo di Mina, album che vorrei poter dire abbiano rappresentato un pilastro della mia educazione musicale bambina, ma no. Però certe cose si sanno e basta e quindi sono pronta e ricettiva per forgiare nuovi immaginari legati a questa toponomastica che gronda storia della musica in Italia.
Che questa Prima Estate sia ancora piuttosto acerba appare chiaro nel pomeriggio del giorno uno quando l’orario di apertura dei cancelli viene via via posticipato, e, mentre all’interno del parco i lavoratori si affannano a terminare gli allestimenti, i fan – non numerosissimi a dire il vero – vengono tenuti in attesa sotto il sole in un crescendo di frustrazione che si allenta solo quando, con più di due ore di ritardo, viene dato via libera per entrare.
Per la serata d’esordio, il festival ha proposto due tipologie di biglietti: General Admission e Garden Vip (+30 euro sul biglietto base di 60 circa euro). Questo, nella pratica, si è tradotto nella separazione della platea in due settori tramite un corridoio larghissimo che dal mixer arriva fino a fronte palco e non restituisce un colpo d’occhio particolarmente invitante, così come i cavi scoperti e le tavole di legno che credo siano lì ad impedire agli altoparlanti di sprofondare nel terreno misto sabbia del parco.
Chi invece contribuisce a costruire un’immagine invitante del festival è il media team in grado di realizzare contenuti social con una rapidità e perizia tale che, guardando ai reels del giorno uno, parrebbe che il set della prima band, gli argentini El Mato a un Policia Motorizado, saliti sul palco con più di un’ora di ritardo sull’orario previsto, siano stati accolti da un pubblico almeno semi-entusiasta e non da sparuti gruppetti di persone per lo più bisognose di liquidi.
La Prima Estate ha puntato tanto sull’idea di esperienza e di vacanza, così vado a fare l’esperienza di una birra. Come capita spesso ai festival, bisogna cambiare i soldi in token e mi metto in fila. Se l’esperienza di vacanza che la Prima Estate voleva comunicare era quella di essere bloccati in coda sull’Autostrada del Sole l’obiettivo è centrato in pieno. Procediamo con una lentezza estenuante, anzi siamo fermi. Sentendomi il padre di famiglia che si informa dai camionisti su cosa sia successo più avanti nella coda, attacco bottone con una coppia elegante, stile preppy. Americani, sono in vacanza dalla Florida. Lui vorrebbe scaricare la app per pagare più alla svelta, lei è convinta che sia uno scam. ‘Di dove sei?’, mi chiedono. Rispondo vaga, ‘Del Nord’. Lui: ‘Ah, per quello parli in Inglese’. Ok.
Intanto Giorgio Poi sta facendo un set apprezzabile, magari un po’ di corsa nel tentativo di recuperare il ritardo. Anche se due grandi schermi – a tratti sproporzionati per quelle che direi non sono più di 2000-2500 persone – rimandano le immagini di quanto succede sul palco, è difficile concentrarsi sul concerto a questa distanza. Da sottopalco mi mandano messaggi invitandomi a tornare ma io, ancora una volta padre di famiglia che si rifiuta di cambiare strada anche quando ha palesemente imboccato quella sbagliata, rimango in fila durante l’intero concerto di Giorgio Poi, il cambio palco e persino quando sento le prime note della chitarra specialissima di Courtney Barnett.
‘Abbiamo pazientato anche troppo, ora basta’ borbotto stringendo i pugni. Sto citando il Collini di Sensibile o l’esordio dei Disciplinatha? Ad ogni modo, un pensiero a Dario Parisini che la morte è brutta.
Riesco infine a tornare al mio posto col prezioso carico di due birre e una Coca Cola (14 euro, non so quanti token – il cibo l’ho lasciato perdere) e nel frattempo Courtney ha già suonato due canzoni. Arrivo per la coda della mia preferita: Avant Gardener, cronaca di un attacco di panico pennellata con un’ironia tale che verrebbe quasi da provare l’esperienza se poi la si riesce a raccontare così:
‘The paramedic thinks I’m clever ‘cause I play guitar / I think she’s clever ‘cos she stops people dying’
Courtney e band procedono rapidi – Più ragazze con le chitarre! Più ragazze con le chitarre! Più ragazze con le chitarre! Ho già detto più ragazze con le chitarre? – alternando brani dell’ultimo album Things Take Time, scritto nel corso della pandemia con le canzoni l’hanno resa una delle autrici più solide del panorama indipendente degli ultimi anni. Il set termina dopo solo 12 pezzi – probabile il tributo da pagare agli headliner e ai ritardi dell’allestimento – con quella piccola perla di struggimento mascherata da filastrocca che è Before You Gotta Go e con Write a List of Things to Look Forward To che lascia con un una domanda che pesa: We did our best but what does that really mean?
Se l’interrogativo è di quelli impossibili da dipanare, tanto più in una serata in cui ci stringiamo sottopalco sudaticci sperando che la persona dietro di noi non ci stia ricoprendo di particelle di saliva contagiosa, più facile è sapere cosa stia in questo momento in cima alla lista delle cose cui la platea is looking forward to: Matt Berninger e soci.
Vedere i National dal vivo è un po’ come tornare a casa, nell’accezione di Bloodbuzz Ohio in cui per casa si intende uno spazio familiare e disfunzionale insieme. Fuor di canzone, il nostro paese è in realtà seconda casa per alcuni di loro, la sorella di Aaron e Bryce Dessner vive qui da anni e, mentre la crew si affanna ad allestire il palco in tempo record, si intravede un Bryan Devendorf improvvisare una lezione di batteria per un gruppetto di bimbetti che non arrivano al metro di altezza.
È l’ultima data di un tour che ha portato i National di nuovo sul palco dopo 900 giorni di inattività. Se la data di apertura alla Salle Pleyel di Parigi aveva visto un Berninger quasi paralizzato mentre il resto della band (nella formazione a sette, con Kyle Resnick e Ben Lanz a fiati, cori e strumenti assortiti) dava vita a una performance impeccabile, l’impressione è che nel corso di queste tre settimane il frontman si sia ritrovato: canta con gli occhi aperti, cerca il contatto visivo col pubblico, si sporge verso la platea costruendo coreografie di pieni e vuoti dinamici che, anche se non lo portano più fisicamente in mezzo al pubblico, (la pandemia non si fa dimenticare, mai), attivano quello scambio emozionale che è una delle caratteristiche delle esibizioni dal vivo della band americana.
Non essendoci un disco in promozione, la scaletta spazia con libertà nell’ampia discografia della band, con una netta predilezione per l’era post-Boxer. L’apertura è affidata a Don’t Swallow the Cap, da Trouble Will Find Me del 2013, per poi passare a Mistaken for Strangers da Boxer che se nel 2008 fotografava un sentimento di specifico disagio legato all’affacciarsi all’età adulta e i suoi compromessi, ora che i componenti della band viaggiano spediti verso i 50 e oltre forse risulta un po’ datata. Ma non importa: strillare a pieni polmoni quanto le vite degli adults siano unmagnificent è sempre un magnifico esercizio catartico e un risparmio sulle sedute di terapia. Si continua con Bloodbuzz Ohio completamente tinta di rosso e con una versione di The System Only Dreams in Total Darkness che, nella resa del ritornello strillatissimo, fa ben sperare per la tenuta della voce di Berninger nei prossimi anni. Rylan offre alla platea un piccolo regalo con Mina Tindle (artista francese e compagna di Bryce Dessner – questa band è davvero un affare di famiglia) che torna per la prima volta sul palco dopo che nel 2019 era stata una presenza fissa nel tour di lancio di I Am Easy to Find.
Non avere un disco in promozione significa anche poter dare spazio a pezzi inediti, tratti dall’album ormai quasi concluso. Per quanto in alcune interviste avessero anticipato una svolta in una direzione rock più vicina a quella degli esordi, le canzoni presentate stasera (Ice Machine e Haversham) hanno un suono-National abbastanza classico, con il tappeto ritmico assicurato dalla batteria di Bryan Devendorf e dal basso del fratello Scott a fare da base agli arpeggi delle chitarre dei Dessner in un suono ormai distintivo (che appare evidente anche in molte nelle produzioni di Aaron Dessner per Taylor Swift).
A livello di testi, da quel che è dato capire, in queste nuove canzoni Berninger e Carin Besser – la compagna, ormai da anni accreditata come autrice – si confermano ancora una volta campioni nel radiografare le microdinamiche dei rapporti di coppia, dell’amore, della comunicazione tra le persone e dell’impossibilità di parlarsi e capirsi fino in fondo.
La seconda metà del set si muove tra le tinte morbide e a tratti disperate di Pink Rabbits, England e Graceless – menzione speciale ai visual a opera di Michael Brown, che ormai da anni contribuisce alla costruzione dell’identità visiva della band.
Il pianoforte di Fake Empire annuncia che siamo verso la conclusione: We’re half awake in a fake empire ancora dolorosamente attuale, soprattutto alla luce della decisione della Corte Suprema di abolire la sentenza del 1973 che legalizzava l’aborto negli USA. Martedì era ancora da venire, mentre scrivo queste righe è una dolorosa realtà.
La sobria About Today – che ormai da un po’ ha sostituito il coro collettivo di Vanderlye CryBaby Geeks e di cui un po’ si sente la mancanza – conclude il concerto dopo 19 pezzi, una scaletta leggermente più corta di quella proposta in altre date del tour che però non è parsa tale. Lasciamo il parco soddisfatte, la nostra Prima Estate termina qui, per altrə inizia domani.