La Prima Estate: il festival-vacanza della Versilia che segna l’inizio dell’estate

Tra i passeggini e le coppiette che si tengono per mano sul lungomare della Versilia, lo scorso weekend si aggiravano diversi individui fuori contesto, immediatamente riconoscibili perché vagamente stonati in quel luogo di villeggiatura che quest’anno, a causa di un meteo a dir poco avverso, non è ancora decollato.

Sono qui, come me e il mio gruppo di amici, non tanto per godersi un weekend di mare – che, spoiler, non ci godremo perché pioverà per buona parte del tempo – ma per partecipare a un evento che, nonostante nato da pochissimo, si sta imponendo nel panorama musicale dell’estate italiana come la Next Big Thing.

Non parlo di una delle situazioni più surreali e chiacchierate degli ultimi giorni, ovvero l’improvvisato “Festival Of The Sun” di Rick Rubin, che grazie al passaparola ha messo insieme un piccolo gruppetto di amici per una festicciola “senza pretese”.* Il risultato, che tutti abbiamo visto attraverso le stories instagram del profilo del festival e di quei pochi fortunati presenti, è stato un viaggione che nemmeno dopo aver preso tutte le droghe del mondo avremmo potuto immaginare: James Blake che suona in una chiesa, Jovanotti, Gossip, gli Arcade Fire accompagnati alla batteria da Riccardo Scamarcio. Solo a scriverlo mi gira la testa.

*(disclaimer: ovviamente non è così, visto che piano piano stanno uscendo i ringraziamenti ai vari sponsor. Preferivamo pensare che fosse un visionario anarchico, ma poi ci ricordiamo che viviamo nel capitalismo, sigh)

No, l’evento che anima il piccolo paese di Lido Di Camaiore per due weekend di giugno da 3 anni a questa parte è La Prima Estate.

Shame. Foto Stefano Dalle Luche

Più che un festival, una vacanza”: non sono io a dirlo ma gli organizzatori stessi, che ne fanno il claim di questo evento che ero inizialmente indecisa se definire festival o rassegna, ma che a pensarci bene non è nessuno dei due. La forza di questo (che per semplificare d’ora in poi chiamerò) festival è l’esperienza. Si può cominciare al mattino con eventi dedicati in alcuni stabilimenti balneari, dalle lezioni di yoga, ai talk. La Santeria Belmare diventa l’avamposto in cui passo tutte le mattine di questo secondo weekend, tra presentazioni di libri e interviste agli artisti che sentiremo la sera sul secondo stage. 

L’esperienza continua anche all’interno dell’area festival, ospitata nel parco Bussola Domani, a pochi metri dalle spiagge. Quello che normalmente manca in Italia è la capacità (o la voglia) di creare una situazione che sia il più possibile godibile per gli utenti. Una cosa che riesce abbastanza bene nel resto dell’Europa, mentre da noi sembra vigere ancora la tacita regola che l’importante sia il concerto e tutto il resto superfluo. Così via di pit, token con minimo di acquisto, drink con prezzi alle stelle, scarsa offerta di cibo, pulizia dei bagni non pervenuta, … 

Quando sono entrata nel parco per la prima volta venerdì 21 sono rimasta colpita da come è gestito il generoso spazio. Non esiste un vero e proprio pit, ma un’area separata per chi decide di acquistare il pacchetto “settore garden” che garantisce qualche servizio in più, ma senza discriminare tutti gli altri. L’area garden infatti non è quella davanti al palco, ma un settore sulla destra, che divide il parterre a metà, permettendo a chiunque di andare nelle prime file. L’area food è vasta, la proposta varia e le code tutto sommato veloci. Ci sono tantissimi tavoli e con un po’ di pazienza si riesce a trovare posto per sedersi e mangiare. E siccome per me il termometro dei prezzi di un festival è il costo della birra, credo valga la pena menzionare il fatto che qui ce la si cava con 6,5€ e con la possibilità di acquistare un pack da 5 a 25€. Ma soprattutto, l’organizzazione ha eliminato gli odiatissimi e decisamente poco eco friendly token in favore di una tessera ricaricabile, anche tramite app, che permette pagamenti cashless veloci e sicuri, e con la possibilità di richiedere un rimborso per il credito non usufruito.

Foto Stefano Dalle Luche

Sono arrivata a metà articolo senza parlare di musica, ma dopo la tremenda logistica  dei live estivi 2023, la prima cosa che mi andava di condividere è il fatto che a La Prima Estate sono stata bene, ho mangiato bene, ho bevuto senza spendere troppo e non ho avvertito quella brutta sensazione di venire spennata mentre inseguo una passione che nel mio immaginario di persona cresciuta negli anni ’90 dovrebbe corrispondere con valori ben diversi.

Dopo il primo weekend in cui si sono alternati Jane’s Addiction, Phoenix, Dinosaur Jr, Sleaford Mods, 2manydjs e non solo, questo secondo weekend di programmazione parte venerdì 21 con una serata tutta elettronica, che vede alternarsi, dalle 18.30 in poi, il norvegese Todd Terje, il duo ANOTR e la star indiscussa della serata, Peggy Gou. Ammetto colpevolmente di non essere troppo preparata su questa prima serata, e quando si tratta di dj set mi viene anche difficile descrivere la performance dell’artista. L’aspettativa era di divertirmi, ed è stata soddisfatta. Chissà se si è divertita anche lei, nelle due abbondanti ore di set, bellissima e algida nel suo abito nero, sempre perfetta nelle diverse inquadrature della camera che le volteggiava intorno. Ma soprattutto, chissà se si sarà divertita la sua social media manager, tutta la sera a braccia tese dietro la testa di Peggy a girare video, spesso con due telefoni. Da collega a collega, I feel you.

Foto Stefano Dalle Luche

Sabato 22 è una serata variegata nei generi, che mette insieme artisti con un pubblico potenzialmente diverso, sebbene in molti siano lì per l’headliner Paolo Nutini. Aprono gli scozzesi Swim School, che mi hanno ricordato una versione più sporca di band come Wolf Alice o Paramore, o una meno cattiva di Dead Sara. Non so quando li risentiremo in Italia, valgono l’ascolto.

I secondi a salire sul palco sono i Black Country New Road, band dalla storia tanto recente quanto travagliata e particolare, usciti nel 2021 con un disco che odorava di post punk sperimentale anni ’90, e nell’anno successivo con un secondo disco dalle atmosfere diverse, più rarefatte e sognanti, per poi subire un cambio di formazione con l’abbandono del cantante. Non sapevo cosa aspettarmi e non ho ancora una risposta definita a questo interrogativo: è indubbio il talento dei 6 membri originali che continuano a portare in giro il progetto in una veste quasi onirica, che mi ha portato alla mente scenari celtici, fatine e folletti.

Michael Kiwanuka si presenta con un ensamble di musicisti e per 45 minuti della sua esibizione ci tiene tutti incollati. Non credo che troverò mai le parole giuste per descrivere quella che è stata una vera e propria magia, una dimostrazione di talento e umanità incredibile, coadiuvata anche da una serie di visual che ci parlavano di amore, di razza, di speranza. Unico neo: è durato troppo poco. Cosa che non si può dire della performance di Paolo Nutini, durata ben due ore (ed io avrei volentieri sacrificato almeno una mezz’ora per godere più a lungo di Kiwanuka). Parte con forza, perde un po’ di smalto nella parte centrale (ma forse sono io che ho una fortissima allergia per le canzoni d’amore, e in questo live il buon Paolo non ce ne risparmia) e si riprende sul finale, regalandoci in chiusura una “Last Request” che mancava dai suoi live da molto tempo, oltre a un tenero aneddoto, raccontato tutto in italiano, sui suoi genitori, di origini toscane, che si recavano in quello stesso parco da giovani sposini per sentire Mina e Renato Zero.

WU-LU. Foto Stefano Dalle Luche

Arriviamo così alla serata per me più importante di tutto il weekend, il motivo principale per cui sono qui chiude l’intero festival. La lineup di domenica 23 è tutta britannica (non me ne vogliano gli headliner della serata) e vede due dei gruppi più importanti della nuova scena post-punk unirsi a una vecchia gloria dell’indie anni 2000.

Partiamo con Wu-Lu, la scoperta vera di questo festival. Musicista/rapper/produttore londinese che ha debuttato con il suo primo disco nel 2022. Una gemma ancora grezza di cui spero sentiremo molto parlare in futuro. Sono quasi le 20 ma il sole è ancora alto quando gli Shame prendono possesso del palco. Ero curiosissima di vederli dopo essermi persa il loro live a TOdays 2021: nell’anno nefasto dei concerti da seduti con la mascherina, si narra che furono gli unici in grado di fare alzare il pubblico, che ci furono balli e perfino qualche allora proibitissimo abbraccio. Li ritrovo su un palco decisamente più grande, che tengono senza alcuna difficoltà, tra le capriole del bassista e gli stage diving del frontman Charlie Steen. Un live grezzo ma tecnicamente impeccabile, che grida a gran voce Inghilterra, working class, hooligans. Auguro loro palchi ancora più grandi, più stage diving e molte altre capriole col basso.

Kasabian. Foto Stefano Dalle Luche

Sui Kasabian avevo poche aspettative, dei vaghi ricordi di un Mad Cool 2018 in cui li vidi di sfuggita e non mi lasciarono granché. Ma ci sono volute poche note per ricordarci che sono una delle band di punta dell’indie degli anni zero, e che dal vivo sono ancora in grado di fare ballare e cantare un pubblico che si era appena ripreso dalla precedente dose di schiaffoni. Infilano una dopo l’altra tutte le loro hit e un paio di cover, facendoci anche dimenticare la mezz’ora di pioggia scrosciante. E poi arriva il vero fulcro di questa serata.

Fontaines DC. Foto Stefano Dalle Luche

I Fontaines D.C. sono la band del momento, con un disco in uscita che ci sta tenendo tutti in attesa con aspettative altissime. Dall’uscita del primo singolo “Starbuster” si presentano con un nuovo look che ho sentito definire “alla Spice Girls”, che mi ha fatto molto ridere e riflette bene questa nuova estetica anni 2000, ma il suono per fortuna non ne risente. Quello che è chiaro fin dai primissimi istanti è quanto siano cresciuti. Li avevo sentiti due anni fa e la maturità con cui si esibiscono ora è impressionante, i cinque ragazzini di Dublino sono diventati una band sicura, che sa come tenere il palco e come coinvolgere il pubblico, che non si scompone davanti ai problemi tecnici e se ne frega del coprifuoco sforando ampiamente la mezzanotte. Tecnicamente impeccabili ma cattivi e sporchi al punto giusto, cupi come li avevamo lasciati ma adrenalinici e capaci di scatenare il pogo. Sotto il palco non si riesce a stare fermi e quando finisce se ne vorrebbe ancora, quello a cui abbiamo assistito è un rito collettivo catartico, uno di quegli incroci astrali in cui si assiste ad un live di una band al suo apice, che speriamo non sia il culmine, uno di quei momenti per cui un giorno diremo “io c’ero”.

E si, io c’ero, e spero di esserci ancora per le prossime edizioni di questo festival, o rassegna, o vacanza, o evento ibrido a cui auguro una lunga e prolifica vita.

Foto di Stefano Dalle Luche


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