La metafora della colpa: La preda di Damon Galgut

“La preda” di Damon Galgut, romanzo del 1995 edito ora anche in Italia da Edizioni e/o nella traduzione di Tiziana Lo Porto, è un romanzo circolare, nel senso che inizia dalla sua fine per poi ricominciare un numero infinito di volte, tante quante sono le vite che rappresenta, letteralmente e metaforicamente. Non ci sono premesse per la vicenda del protagonista, un uomo senza nome nel mezzo di una fuga concitata ed estenuante nel Sudafrica natio dello scrittore. Quello che si deduce è che l’uomo cerca riparo. Un romanzo che comincia, quindi, nel mezzo di un’azione, come se lo scrittore stesse continuando un discorso già iniziato chissà dove e chissà quando, ma non è più importante saperlo perché il presente narrativo è più urgente. Sembra che la salvezza arrivi con un prete di passaggio, di cui si arriva a sapere solo il nome, ma non c’è tempo per interrogarsi perché il prete scompare rapidamente dalla vicenda e per il fuggitivo comincia una nuova vita nei suoi panni. Questo è l’inizio della serie di eventi distruttivi che portano Galgut a comporre, in appena 141 pagine, la metafora perfetta della colpa e del rimorso; un romanzo breve che si inserisce nel solco tracciato, nella narrativa statunitense, da Steinbeck e Faulkner, e che per brevità e disperazione ricorda “Uomini e topi” del già citato Steinbeck, con una miseria umana più moderna, ma non certo meno tragica.

Foto di Alessia Ragno

Galgut ambienta la sua storia, come anticipato, nel Sudafrica che conosce, protagonista di molti dei suoi romanzi, sui quali spicca “La promessa”, vincitore del Booker Prize 2021. Quelli che descrive, con la consueta dose di realismo che sconfina nell’onirico, sono spazi aperti, brulli e crudeli con la vita, paesaggi «violenti e strani» come scrive lui, ma anche luoghi della mente travagliata del fuggitivo che affida all’osservazione dell’ambiente intorno a sé e al sonno gran parte del suo rimuginare. Un luogo in particolare, la cava, diventa sede delle azioni cruciali del romanzo e lì ci si ritorna con ciclicità perché dal male originario, pare dirci Galgut, non c’è scampo. Gli uomini protagonisti, però, devono ancora realizzarlo e vagano intorno alla cava provando a sottrarsi al loro destino, con «la testa come un bicchiere d’acqua e […] occhi liquidi e privi di centro». Nelle scene più concitate, la voce narrante, osservatore estraneo ai fatti ma onnisciente, racconta azioni che si susseguono rapide, ma tutto sembra «accadere senza audio», come se nessuno sia davvero preparato all’impatto della violenza, ma allo stesso tempo sia assuefatto al peggiorare delle cose. L’unico rumore che Galgut sceglie per rappresentare questo dualismo è il ronzio sommesso dei fedeli nella Chiesa in cui il fuggitivo trova rifugio mentendo, che «emanava un suono senza dare l’impressione di produrlo come fanno le api o l’acqua».

Damon Galgut

Con “La preda”, testo risalente alla prima metà della sua carriera, Damon Galgut consolida il suo habitat ideale di scrittore, ovvero le storie di uomini tormentati in un Sudafrica spietato, e nel farlo smuove le acque quel tanto che basta per porre il dubbio che vittime e carnefici non siano così diversi.

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