Dell’amore di Boris Pasternak per la poesia – del non potere fare a meno di cantare in versi – ne troviamo traccia persino in quel classico della letteratura che è Il Dottor Živago: in appendice al testo ci sono le poesie di Jurij Živago, il poeta dottore che è il più prossimo alter-ego dell’anima di Pasternak. Non si può separare Il Dottor Živago dai versi di Jurij: le stagioni che si rincorrono mentre i rivolgimenti di potere fanno il proprio corso, l’apparizione degli Urali, una nostalgia indefinita e il dolore per gli altri – tutta la coscienza, la passione di Živago si depositano tra i suoi versi, ora rendono luminosa la notte più barbara, ora affondano disperatamente nella carne. “Io per loro, per tutti sento / come se fossi nella loro pelle.” – scrive Jurij in Alba – “Da loro tutti io sono vinto, e solo in questo è la mia vittoria”. Come poeta Živago sente il dolore degli altri, come dottore lo vive sopra la propria pelle – così l’unica vittoria di Živago sta nell’essere vinto dagli altri, dall’umanità. In mezzo a tutto – la rivoluzione e la guerra, la devastazione e il potere che evoca sempre la sua dissidenza – l’indeterminato turbamento dell’amore, che ora prende gli occhi di Tonia, la moglie di Živago, e poi diventa nostalgia d’assoluto quando si incarna in Lara, i cui destini sembrano intrecciati a quelli di Jurij.
“Noi trasciniamo la quotidianità dentro la prosa per amore della poesia.” – scrive Pasternak nel Salvacondotto – “Attiriamo la prosa nella poesia per amore della musica”. La musica, quel primo chiaro bagliore che aveva agitato il cuore del giovane Pasternak, l’aveva accantonata, ma alla poesia non avrebbe mai rinunciato. E non vi rinuncia neanche quando lavora per anni alla stesura del Dottor Živago, il romanzo che significa riscatto e ricerca di uno spazio di salvezza nelle parole: la prosa di Pasternak è evocativa, a tratti incontra il lirismo, non è un caso che il protagonista sia un poeta. Pasternak ha bisogno dello sguardo di un poeta per guardare agli avvenimenti, alla storia, ai sentimenti – e non potrebbe essere altrimenti, perché è lo stesso scrittore moscovita a non poter fare a meno della poesia nel quotidiano rapportarsi al mondo. Forse non conosceva altro modo. “Lasciatelo pure vivere fra le nuvole”, pare avesse detto di lui Stalin. Se Osip Mandel’štam era stato imprigionato e poi ammazzato per la forza evocatrice di un epigramma, a Pasternak veniva offerto un salvacondotto per continuare a scrivere – ma sarebbe stato sempre un salvacondotto minato dal senso di colpa. Poco prima della condanna a morte di Mandel’štam, Stalin aveva telefonato a Pasternak per domandare cosa ne pensasse dell’opera del poeta di Varsavia: dall’altro lato della cornetta lo scrittore aveva tentennato, quali sono le parole necessarie a salvare un poeta dalla morte? Non le avrebbe trovate, si sarebbe perduto ancora tra le nuvole, e Mandel’štam sarebbe stato ammazzato come un martire dissidente della poesia. Di questo episodio ne troviamo i segni tra le memorie di amarezze della vedova Nadežda Mandel’štam: se anche aveva saputo dopo anni di quella telefonata, si era arresa alla realtà che nessuna parola avrebbe potuto salvare il marito dalle purghe.
La poesia di Pasternak non possedeva la forza versificatrice di Mandel’štam: per Brodskij, Mandel’štam è il collerico, Pasternak il sanguigno. Se quello di Mandel’štam è un appetito metafisico che ha nella sua stessa natura l’essere dissidente al potere, farsene beffa qualunque esso sia, Pasternak è il cantore appassionato della natura e dell’uomo. In un’epoca di poeti suicidi e flauti di vertebre, che faceva eco alla violenza dei versi di Esenin e Majakovskij, non stupisce trovare lo stile di Pasternak intrappolato nel “rococò sovietico”, come lo chiamò Nina Berberova in un memoir che racconta la stagione dell’esilio dei poeti russi. In Pasternak agisce la persuasione poetica, sono le immagini e le parole a rievocare continuamente: così il Dottor Živago è costruito su questa tensione, su una nostalgia che si incarna nelle stagioni che scorrono, nel gelo dell’inverno e nel ritorno delle primavere; sull’ululare dei lupi di Varykino e il dilaniare della sommossa – sulla segreta corrispondenza tra il mondo naturale e la storia che irrompe.
“Qua e là, a isole, risuonavano gli ultimi spari della resistenza infranta. Qua e là, all’orizzonte, sorgevano come bolle improvvise e poi scoppiavano i deboli chiarori rossastri degli incendi. Uguali cerchi e mulinelli creava e intrecciava la tormenta sfarinandosi sotto i piedi di Jurij Andrèevič, sui marciapiedi e sul selciato bagnati.”
L’intera odissea di Jurij Živago è uno sforzo per cantare la vita, e nonostante. La devozione di Pasternak per la poesia è la stessa che per la vita. “L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita” – così confessa il dottore a Lara dopo averla rincontrata nella cittadina immaginaria di Juriatin. È a Juriatin che quel magnetismo di attrazione e avversione che hanno sempre rimandato, fatalmente esplode. Se la rivoluzione era scoppiata “quasi suo malgrado, come un sospiro troppo a lungo trattenuto”, una stessa agitazione arriva a cogliere Jurij e Lara. Nonostante fino a quel momento si fossero mossi più o meno parallelamente come punti indefiniti nello spazio di un romanzo, quel piccolo angolo di mondo inventato tra i monti Urali si fa scenario di un lontano turbamento interiore a cui afferrarsi. La ragazza, che il dottore aveva già incontrato in tempi diversi, crescendo pareva trascinarsi dietro le amarezze e i sogni di un intero popolo in rivoluzione contro l’ingiustizia; e così che – quasi suo malgrado – Lara Antipova diventa il volto trasfigurato e chiaroveggente di una rinnovata ispirazione: che sia poetica o rivoluzionaria, nel suo personaggio si manifesta il moto primitivo verso la vita. Per Jurij, in Lara si condensa l’intera nazione, e la vita, l’espressione stessa dell’esistenza; per il marito Pasha/Strelnikov, Lara è il pretesto con cui si è gettato nella rivoluzione, “per cancellare ogni traccia dei suoi tristi ricordi”.
“La vita è tornata, così, senza motivo, / come allora s’era stranamente interrotta. / E sempre in quella stessa strada antica, / sempre quello stesso giorno d’estate e a quell’ora.”
Nella realtà il personaggio di Lara trova particolare ispirazione dall’incontro e la relazione di Boris Pasternak con Olga Ivinskaya, a cui lo scrittore dedicherà l’esondare avvilito di tutti i sensi di colpa d’una vita. Così, quando Lara alla fine del romanzo viene arrestata per strada, sembra che Pasternak voglia mettere agli atti l’arresto e l’interrogatorio che sono toccati a Olga per colpa sua. È ancora possibile l’amore durante lo sfacelo, può ancora battere un cuore incatenato alla realtà? Più in generale il Dottor Živago esplora lo spazio per la poesia nei tempi cupi: quella resta, irrefrenabile come la vita, finché c’è vita, agitando il dolore con cui il poeta si brucia sul taccuino. Nei versi di Jurij Živago si condensano immagini oscure, nel romanzo il tremendo sforzo per ritrovare tracce d’umanità e il sollievo che esistano ancora.
Tracce visibili dagli oblò delle carrozze merci dei treni affollate di gente, nel forzato vagabondare tra i boschi con compagni di avventura non scelti, nella lotta dell’uomo contro l’uomo, unica e solitaria persino in mezzo alla folla, nello schianto con cui ci si consegna agli addii, nell’irremovibilità con cui la vita resta vita sotto ogni regno. Sembra che Boris Pasternak abbia voluto dirci che sì, la poesia resiste a ogni tempo, perché in lei si anima il grido umano primitivo, il sentire comune di strazio e bellezza, e nelle parole c’è la più viva testimonianza della condizione umana – qualcosa che va oltre le contingenze del tempo o del potere, che ha più a che fare con vita-morte-e-libertà che con tutto il resto. La visione tentacolare della prosa di Pasternak si porta addosso le ferite della poesia: così la sua lingua riesce a preservarsi dalla retorica, dai discorsi troppo entusiasti o dalla resa. C’è in Pasternak una persuasione all’umanesimo, un tipo di umanesimo dove sopravvive una meditazione sulla natura e il mondo fisico, un tipo di umanesimo dove la scienza della vita e la poesia si conciliano per fare strada al futuro.
“E dov’era l’incendio del tramonto / contro il nero lontano dei rami, / come una vibrante campana a stormo, / ecco la frenesia d’un usignolo.”